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Un nonsenso giornalistico
che filtra un'immagine desolante

Un nonsenso giornalistico che filtra un'immagine desolante

Più che fuori luogo il “modello” Vespa questa volta è apparso estraneo alla storia, come fosse rappreso in una distonia temporale, avulsa da richiami cronologici e identità riconosciute. Il tema “mafia” ha generato negli anni divisioni più o meno nette, ammettendo categorie schierate, sentimenti radicali e coscienze divaricate. Ha accolto e cronicizzato anche la cosiddetta “zona grigia”, stirando il codice di procedura penale pur di inglobare ipotesi di reato – come il concorso esterno all’associazione mafiosa – in linea con le sue sofisticate evoluzioni criminogene. Eppure l’intervista al figlio di Riina sfugge a qualsiasi caratterizzazione nella pur ampia mappa antropologica, dove anche le sfumature aprono un profilo. Un “nonsenso” giornalistico che filtra un’immagine vuota e vagante, alla ricerca della connessione con realtà e storia. Perché quando si parla di mafia non si può prescindere da realtà e storia. E le domande di Vespa, apparentemente rispettose del “minimo sindacale”, nel solco di uno stile “ammorbidente”, non sono riuscite a schiodare il profilo bucolico della famiglia Riina, raccontata da un figlio «normale e differente», alle prese con una scampagnata e un omicidio, tra una gita a Mondello e un giudice da scannare.

L’incredulità stampata sul volto del figlio di Vito Schifani, poliziotto morto nella strage di Capaci, è forse la più eloquente espressione a corredo dell’intervista. Qualcosa di più profondo dello stupore indignato, della rabbia che alza le mascelle. È l’interrogativo in un vicolo cieco: che senso ha questa intervista? Un disagio afono che ha spiazzato lo stesso Vespa, sicuro di raschiare emozioni forti dal “duetto” buono-cattivo. E invece il patron di “Porta a Porta” ha incassato lo sguardo imbarazzato di chi - dopo aver ascoltato l’intervista - avrebbe voluto dissolversi. L’opportunità giornalistica, esasperata da un’operazione cinica e speculativa, poteva avere un significato - più o meno condivisibile - se fosse stata supportata da argomenti radicati nella realtà dialettica della mafia, dove c’è spazio anche per il negazionismo. Ma amplificare il “non so cosa sia la mafia” del giovane Riina, senza replicare “ma lei mi prende per un deficiente?”, significa accogliere una categoria surreale. Perfino nell’omertà c’è un pensiero che si fa sguardo e assume facce. Un disastro professionale che l’ebbrezza dello share non potrà mai ricompensare. Vespa pensava che bastasse montare il suo “modello” da soap opera giornalistica su un nome clamoroso, Riina, fidandosi dell’effetto scenico. Ma mafia e delitto di Cogne non sono la stessa cosa. L’impalcatura gli è crollata addosso, schiacciata da una storia scritta su un campo di morti e dolori, sedimentata nella coscienza collettiva, refrattaria agli impulsi emotivi “telecomandati” da un salotto.

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