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Le mani di Cosa nostra su Messina

Le mani di Cosa nostra su Messina

I tentacoli della “Piovra” sulla città dello Stretto, nei vari strati dell’economia reale, condizionanata e soffocata. Adesso, Cosa nostra messinese detta legge. È una realtà fortemente radicata nel territorio comunale, oltre che in provincia.

Fino a ieri l’opinione pubblica aveva sentito parlare di legami tra cosche palermitane e catanesi con la “famiglia” dei barcellonesi. Gli investigatori, invece, consapevoli di nuovi scenari all’orizzonte, si sono buttati a capofitto su altre ramificazioni della mafia etnea. E hanno scoperto elementi inquietanti. Li ha svelati l’inchiesta “Beta”, che riguarda le province di Messina, Catania, Siracusa, Milano e Torino. In particolare, i carabinieri del Ros e del Comando provinciale di Messina, con il supporto dei Comandi provinciali territorialmente competenti, dello Squadrone eliportato carabinieri cacciatori di Sicilia e del Nucleo cinofili, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip Salvatore Mastroeni, su richiesta della Dda peloritana. I militari dell’Arma, coordinati dal procuratore Sebastiano Ardita e dai sostituti Liliana Todaro, Maria Pellegrino e Antonio Carchietti, hanno indirizzato la lente sul “core business” del gruppo criminale e al termine di un’anno di attività hanno delineato uno spaccato allarmante.

Trenta i soggetti gravemente indiziati, a vario titolo, di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, estorsione, corruzione, trasferimento fraudolento di valori, turbata libertà degli incanti, esercizio abusivo dell’attività di giochi e scommesse, riciclaggio, reati in materia di armi e altro. Per dieci indagati disposti gli arresti domiciliari, mentre gli altri rinchiusi in carcere. All’appello, fino a ieri, giorno della retata, mancava solo il costruttore messinese Carlo Borella, ex presidente dell’Ance, destinatario della misura restrittiva più tenue. Fabio Lo Turco, 45 anni, si è costituito in serata all’aeroporto di Fontanarossa, al rientro da Malta.

Peculiarità dell’indagine, avviata nel 2013, è la scoperta di una entità criminale nata da Cosa nostra catanese e contraddistinta da vincoli di sangue. Referenti su Messina, in primis, Francesco e Vincenzo Romeo, cognato e nipote del boss Nitto Santapaola. Sui generis il modus operandi della cellula: silente e distante dalle bande armate, infiltrata nell’economia reale e con legami in ogni settore della società che conta. Le mire rivolte verso società di servizi, appalti su scala nazionale, gioco illegale e scommesse calcistiche della Serie A. Tutto ciò attraverso presunti episodi di corruzione e clientelismo, controllo dell’attività di enti pubblici, una rete di informatori e complici, pure tra le forze di polizia e in Procura. Una banda, quella annientata dai carabinieri, collocata gerarchicamente a un livello più alto rispetto a quelle armate della città dello Stretto, in grado di guadagnarsi, da queste, rispetto e persino obbedienza. Niente pizzo, poi, per non creare troppo rumore, ma spazio a società erogatrici di servizi alle imprese (quali cooperative nel settore dalle forniture alimentari) o capaci di assicurare in subappalto prodotti per conto delle Aziende sanitarie locali. Un sistema tentacolare con un “codice” da rispettare negli affari (illeciti), caratterizzato da riservatezza e reciproca affidabilità.

Dall’operazione “Beta”, inoltre, emerge il ruolo apicale rivestito nel sodalizio da Vincenzo Romeo (sotto la supervisione del padre Francesco), coadiuvato dai fratelli Pasquale, Benedetto e Gianluca. Proprio Vincenzo, in occasione di un sequestro di oltre 10 milioni di euro, eseguito dal Ros nel marzo 2014 ai danni della famiglia Ercolano, si sarebbe fatto carico di finanziare i sodali catanesi. Svelati pure gli interessi prioritari del gruppo: la gestione degli apparecchi da intrattenimento e dell’online gaming: l’organizzazione di corse clandestine di cavalli; la conduzione di attività immobiliari, di lavori edili in genere, di appalti pubblici e privati del capoluogo messinese, realizzata anche con l’imposizione di forniture e manodopera.

Tra gli episodi ricostruiti nell’ordinanza figura una procedura di acquisto di immobili, da adibire ad alloggi popolari, nell’ambito del risanamento di “Fondo Fucile”. È venuto a galla un rapporto collusivo con alcuni esponenti dell’Ufficio urbanistica di Palazzo Zanca, funzionale all’aggiudicazione dell’appalto, non concretizzatosi per rinuncia di alcuni indagati che, in corso d’opera, hanno ritenuto più vantaggioso alienare gli immobili sul libero mercato. Per tale vicenda, risulta sotto inchiesta l’ing. Raffaele Cucinotta, all’epoca dei fatti funzionario del Comune di Messina e ora capo dell’Ufficio tecnico di Palazzo dell’Aquila, a Milazzo. Nel calderone, ancora, le accuse a carico di un professionista, l’avvocato Andrea Lo Castro: avrebbe messo a disposizione del sodalizio le proprie competenze e conoscenze per consentire il riciclaggio di denaro, l’elaborazione di strategie per la sottrazione, in frode ai creditori, della garanzia patrimoniale sulle obbligazioni. Non solo: avrebbe dato la disponibilità a fare da prestanome per l’intestazione di beni.

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