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L’irriducibile “padrino” che regnava tra le Madonie e i Nebrodi

L’irriducibile “padrino” che regnava tra le Madonie e i Nebrodi

Il “boss delle Madonie”, i cui legami con la criminalità organizzata dei Nebrodi è stata accertata in numerose inchieste antimafia, è morto. Era il più anziano detenuto al 41 bis. Come i “padrini” di un tempo, senza aver mai aperto bocca e chiudendo il fronte con una possibile collaborazione, a 91 anni è deceduto mercoledì pomeriggio, nell’ospedale del carcere di Parma dove si trovava ricoverato, Giuseppe Farinella, per decenni incontrastato capo del potente clan di San Mauro Castelverde, piccolo centro in provincia di Palermo sulle Madonie ma distante una manciata di chilometri con il confine della provincia di Messina ed i Nebrodi occidentali.

Rinchiuso in carcere dal 1994, poi sottoposto al regime del “41 bis” (carcere duro), don Peppino, come era chiamato dai suoi compaesani, stava scontando una condanna definitiva all’ergastolo poiché è stato riconosciuto quale componente della commissione di Cosa Nostra che, nel 1992, autorizzò le stragi di Capaci e via D’Amelio a Palermo in cui, fra il 23 maggio e il 19 luglio, persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e otto agenti di polizia delle scorte.

Considerato uno degli amici più fidati del “capo dei capi” Totò Riina, Farinella era stato colpito cinque  mesi fa da ictus mentre era detenuto nel centro clinico del carcere parmense ed era stato trasferito in ospedale. A luglio scorso la Cassazione aveva accolto il ricorso del suo legale contro la proroga del carcere duro.

Il 29 settembre il Tribunale di Sorveglianza di Roma avrebbe dovuto pronunciarsi in merito alla richiesta di differimento della pena. Era stato per primo il pentito catanese Antonino Calderone a spiegare ai giudici il ruolo che Giuseppe Farinella ricopriva all’interno di Cosa Nostra. La cosca di San Mauro Castelverde fu una delle prime a fiutare il business degli appalti gestendo il racket delle estorsioni o l’imposizione delle aziende di movimento terra alle grandi imprese, impegnate nei più importanti lavori pubblici sui due versanti delle province di Messina e Palermo. Tornando alla strage di Capaci l’accusa lo ritiene come colui che indicò al clan dei Corleonesi il nome di Pietro Rampulla, di Mistretta, accusato di essere stato l’artificiere della strage. Il nome di Farinella, che dopo l’arresto lasciò il comando del clan al figlio Domenico, compare nelle più importanti inchieste gestite dalla Dda di Messina nell’ambito delle operazioni antimafia scattate sui Nebrodi dal 1994 in poi, da “Mare Nostrum” a “Nebrodi”, da “Romanza” a “Icaro”, dove appare chiaro il ruolo predominante della cosca madonita nella gestione delle estorsioni, soprattutto per i lavori pubblici, insieme ai clan di Mistretta e Tortorici.

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