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Rifugiato politico che viveva a Messina, fuggito da Tripoli ma l'inferno era qui

La morte crudele e silenziosa, ai tempi del “colera”, quel chiasso e quell'apparente condivisione collettiva, in cui sguazziamo quotidianamente, pensando di sapere tutto e di tutti, senza più riconoscere vanità e impegno solidale, verità e fake news.

La morte che passa, che ci lambisce appena, che si confonde e si disperde nel rumore insopportabile del terrorismo mediatico e dell'indifferenza, facce di una stessa medaglia.

La morte di cui nessuno parlerà, la morte di cui non importerà niente a nessuno, è quella che si è presa tra i suoi artigli il giovane senza nome, che noi abbiamo chiamato Fahdi nel giorno in cui la nostra Claudia Benassai scoprì e raccontò la sua storia. Avrebbe potuto essere una meravigliosa storia d'integrazione e di sport. Quel ragazzino riccioluto, scampato agli orrori della Libia ma con un segno permanente, una ferita non più rimarginabile, sognava di diventare il piccolo “Federer” del tennis-tavolo.

Una maledetta pallottola di un infame destino (era in strada, a Tripoli, quando spararono all'impazzata e lui venne colpito, bersaglio innocente della sporca guerra libica) lo aveva costretto in carrozzina ma qui, in riva allo Stretto, aveva trovato persone buone, dirigenti sportivi e “maestri” competenti, che lo avevano visto giocare e avevano creduto in lui. Sembrava potesse prendersi quelle soddisfazioni che la vita gli aveva tolto.

Noi non sappiamo cosa sia accaduto realmente in quest'ultimo anno (raccontammo la sua storia nel marzo 2019) e soprattutto in questi ultimi giorni, da quando è stato ricoverato in ospedale a quando è uscito, per essere trasportato direttamente in obitorio. Sappiamo, però, che mentre infuria in tutt'Italia la psicosi del coronavirus, qui, a Messina, un ragazzo di 23 anni è morto, probabilmente di polmonite. Perché si muore anche di altri virus e batteri, però ci sono morti che scivolano via nel silenzio, mentre tutt'intorno regna l'assordante baccano.

E allora oggi noi piangiamo Fahdi, «il ragazzo in carrozzella venuto dalla Libia», come il titolo che avevamo dato alla sua storia, che poi proseguiva: «Il sogno delle Paralimpiadi, le paure e la solitudine». Quel sogno non si è realizzato. Le paure sono stati i suoi incubi, ne hanno attanagliato l'anima di bambino che aveva visto ad occhi aperti la morte. E la solitudine è stata, alla fine, l'unica compagna degli ultimi istanti di vita. E dire che era fuggito dall'inferno...

 

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