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Bologna-Palermo in aereo: mascherina e niente sorrisi fra termoscanner e super controlli

Il racconto di un giornalista tornato in Sicilia dopo essere rimasto "bloccato" in Emilia Romagna per più di un mese

L'aeroporto di Roma Fiumicino deserto sabato pomeriggio

Immaginate di percorrere i corridoi di uno degli scali più frequentati d’Europa da soli, con mascherina, guanti e un trolley. Basta. Intorno il nulla. Solo le pubblicità che scorrono lì per nessuno, le saracinesche abbassate, le luci soffuse, un poliziotto ogni tanto.

Così era l’aeroporto di Fiumicino sabato pomeriggio. Sei voli in partenza: uno per Palermo, uno per Catania, uno per Londra e tre per altre destinazioni italiane. Basta. Ultima possibilità per chi deve rientrare a casa.

Sono rimasto “bloccato” lontano da Palermo per 39 giorni, un motivo familiare mi ha fatto decidere per un rientro all’ultimo minuto. Questi 39 giorni li ho trascorsi in un tempo sospeso in Emila Romagna dove in molti hanno un parente, un amico, un conoscente ucciso dal Coronavirus.

Il mio viaggio verso Palermo comincia con una telefonata alla Protezione civile, chiedo se posso rientrare, mi dicono che sì, il mio è un “motivo valido”, mi registro al sito Costruiresalute.it dove consegno il mio indirizzo, il luogo in cui trascorrerò i 14 giorni di isolamento lontano da tutto e da tutti e aspetto la mail di conferma. Arriva e compro il biglietto di ritorno a casa, l’unico è un Alitalia Bologna-Roma-Palermo.

Il solo aereo che parte da Bologna decolla alle 15.20, un messaggio della compagnia di bandiera mi avverte che non sarò accettato a bordo privo di mascherina e senza l’autocertificazione che spieghi il motivo del rientro.

Alle 13.50 arrivo in aeroporto a Bologna. Non c’è nessuno. Le porte scorrevoli sono tutte chiuse, intorno il vuoto. Solo una decina di auto di polizia e carabinieri. Ho frequentato questo aeroporto decine di volte negli ultimi anni e a qualsiasi ora del giorno e della notte ho sempre trovato centinaia di viaggiatori intorno a me. Lo scenario apocalittico di sabato scorso non lo dimenticherò mai. Mi ferma un addetto alla sicurezza dello scalo, mi chiede l’autocertificazione, controlla i documenti, se sono in possesso di un biglietto aereo e mi lascia passare. Pochi metri più in là un agente di polizia fa lo stesso. Supero il secondo controllo e mi indicano dove aspettare che le porte di altri controlli si aprano. C’è silenzio. Attesa.

Alle 14.15 si aprono le porte, un metro o poco più l’uno dall’altro: sto attento a non avvicinarmi troppo a chi mi precede e guardo che chi mi segue mantenga la distanza. Una poliziotta chiede a noi venti in fila dove siamo diretti, il motivo, se abbiamo tutte le carte in regola: ci avverte che faranno le fotocopie di tutto.

Il quarto controllo di polizia è al metal detector: ancora distanza, ancora mascherina, ancora piccoli passi per non avvicinarsi troppo agli altri. Non è finita. Il controllo più rigido è il quinto: non si parte dai tradizionali gate ma da quello riservato ai voli internazionali. Quello con i posti di polizia di frontiera con il vetro blindato. Si passa tre alla volta. Non sto tornando a casa, sto partendo da un luogo di confine, la sensazione è quella. Ci tempestano di domande. La ragazza accanto a me ha avuto un grave lutto in famiglia, sta piangendo. Le dicono che non è un motivo valido per il rientro, che l’Italia è piena di gente che sta morendo da sola in ospedale. È dura ma hanno ragione. La ragazza, anche lei diretta a Palermo, è pure rimasta senza alloggio e alla fine passa. Passo anche io dopo domande e fotocopie di tutta la documentazione che provi la ragione del mio viaggio. Non è una formalità: in Italia, senza una motivazione valida, non si va da nessuna parte.

Il decollo è puntuale, in volo le hostess avvertono che il servizio bar è sospeso per ragioni di sicurezza. Si viaggia uno per fila, sul posto accanto un nastro rosso, impossibile ogni movimento, mascherina sempre obbligatoria.

L’atterraggio all’aeroporto di Fiumicino è surreale. Non c’è nessuno. Nessuno. I corridoi sono vuoti, la maggior parte degli schermi spenti, i negozi, le edicole, i bar sbarrati. I pochi passeggeri in partenza si siedono distanti l’uno dall’altro. Tutti hanno la mascherina sul viso, altri anche i guanti in lattice, qualcuno azzarda una tuta di plastica bianca. Tutti stanno provando a tornare a casa ma nessuno sorride come sorride chi sta per iniziare un viaggio.

L’aereo per Palermo decolla alle 17.25. Ci imbarcano su un Airbus 330 quello usato per i voli intercontinentali, quasi 300 posti e 11 mila chilometri di autonomia noi però non partiamo per New York: siamo in 50, c’è anche la ragazza che piangeva a Bologna, e dobbiamo volare per meno di un’ora.

Anche qui uno per ogni fila, persino una coppia che viaggia insieme è costretta a separarsi: “Nessuno può avvicinarsi ad altri - spiega l’equipaggio -, anche se vivete insieme. Ci dispiace ma sono le disposizioni”.

L’aeroporto di Palermo è blindato, il termoscanner mi misura la temperatura a distanza: “36.2 può passare”, dice l’addetta con la pettorina del ministero della Salute da dietro la visiera che le copre interamente il viso. Altri fogli da compilare, un’altra fila, domande, un altro controllo, questa volta affidato alla guardia di finanza. Controllano la registrazione sul sito messo a disposizione dalla Regione Siciliana e passo oltre.

Sono fuori e torno a casa mia dopo 46 giorni. Sul palazzo di fronte ci sono due bandiere dell’Italia e lo striscione con la calligrafia di un bambino: “Andrà tutto bene”.

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