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Morto Vincenzo Mineo, il "Virgilio" dell'aula bunker di Palermo nei giorni di Falcone e Borsellino

E’ scomparso per un malore improvviso Vincenzo Mineo, 69 anni, storico responsabile dell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. La notizia ha sconvolto gli uffici giudiziari e i magistrati del capoluogo siciliano. L’ultimo post di Vincenzo Mineo era stato ieri in tarda mattinata. Scherzava, con la consueta ironia: «E fuori Palermo no, in centro un casino, a Mondello una follia, il prato del Foro Italico off limits, la Cala affollata.... Grazie a tutte le autorità. Ma io mi infratto».

Mineo - cancelliere di Corte di assise a Palermo, andato in pensione nel 2018 - conosceva ogni angolo del «bunker» ma anche memoria storica del palazzo di giustizia di Palermo e del «bunkerino», le stanze blindate dove Falcone e Borsellino imbastirono le migliaia di carte che poi furono utilizzate al maxi processo.

Era anche una «sicurezza» - una sorta di Virgilio, nel ruolo che ebbe quest’ultimo per Dante nella Divina Commedia - per i tanti cronisti di «giudiziaria» che frequentavano il tribunale: mai una parola fuori posto, sempre disponibile, una soluzione la si trovava sempre magari con qualche parola di conforto per i giornalisti più giovani, spaesati tra marmi, lunghi corridoi e tante porte chiuse. Spesso «Enzo» Mineo riusciva con garbo e discrezione a dare la dritta giusta, anche a chi scrive questo lancio. Il cordoglio, per il momento via Facebook, arriva da togati come il giudice Mario Conte, l’ex procuratore aggiunto Leonardo Agueci, e da Giovanni Paparcuri, sopravvissuto alla strage Chinnici e poi fidato collaboratore di Falcone e Borsellino. «Vincenzo Mineo, adesso mi proteggerai anche tu - scrive Paparcuri sui social pubblicando una foto scattata proprio da Mineo nella piazza della Memoria accanto al nome di Falcone -... da lassù. Ciao».

Mineo e il bunker: "Libera stampa in libero Stato"

«Libera stampa in libero Stato». Salutava sempre così i giornalisti, Enzo Mineo, storico responsabile dell’aula bunker di Palermo morto oggi. Ne aveva conosciuti tanti, da quando aveva scelto - in mezzo ai rifiuti e ai passi indietro dei colleghi, motivati quasi sempre da impensabili quanto improvvise ragioni di salute - di mettersi a disposizione di quel «libero Stato» che aveva deciso di processare la mafia. Non tutto lo Stato, si lasciava andare ogni tanto, quando ricordava i troppi morti prematuri e non per cause naturali: la sua parte migliore, i magistrati del pool Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta, Natoli, De Francisci e in testa a tutti il prosecutore dell’opera di Rocco Chinnici, Antonino Caponnetto.

Con i cronisti abituati a frequentare il palazzo di giustizia, «Enzo» discettava di tutto, li intratteneva in talvolta dotte concioni su tutti i problemi più importanti del Paese e del globo terracqueo: armi di distrazione di massa. Quasi mai, infatti, dava notizie, anche se lui, direttore della corte d’Assise all’aula bunker del carcere dell’Ucciardone, notizie continuava ad averne, e tante.
I processi più importanti sono passati infatti dalla «astronave» che lui stesso aveva contribuito a organizzare e costruire, per poi gestirla in anni bui, pesanti, tra mille problemi di sicurezza, con le non poche, possibili falle e con minacce che allora apparivano più che concrete. Di lui però tutti si fidavano ciecamente, dal presidente del maxi, Alfonso Giordano, al giudice a latere Piero Grasso, incaricato dei risvolti logistici, a tutti gli altri magistrati che lì dentro celebrarono giudizi importanti, storici, da Francesco Ingargiola col processo Andreotti a Alfredo Montalto con la Trattativa, in tempi recenti. Mineo quella fiducia l’ha sempre ripagata con un’organizzazione perfetta sotto tutti i profili, non solo del maxi ma anche del giudizio contro Giulio Andreotti e degli altri grandi dibattimenti passati dai due bunker (si aggiunse negli anni '90 anche Pagliarelli) in cui Enzo sapeva sempre tutto, fino al dettaglio meno evidente.

Era una memoria storica, definizione spesso abusata ma per lui perfettamente calzante, e andava orgoglioso di quel «processone», come lo chiamava il cardinale Pappalardo: «All’estero - ricordava - ci hanno fatto i complimenti, dicevano che non sembrava l’Italia e io ribattevo che anche questa era l’Italia». Forte, Vincenzo detto Enzo: come tanti, sembrava indistruttibile e quando andò in pensione quasi non ci credevano, i cronisti abitatori del palazzo. «Sì, ragazzi, me ne vado, ma in realtà resto», diceva con quegli occhioni azzurri e la pelata compensata da una barba bianca che era l’emblema di una bonomia d’altri tempi, un uomo tutto d’un pezzo sebbene purtroppo non avesse le physique du role. Ma quella integrità interiore detestava darla a vedere, quasi fosse una sorta di vanteria, essere uno che faceva solo il suo dovere. Era rimasto, nonostante i raggiunti limiti di età; si vedeva di meno al palazzo di giustizia ma al bunker andava spesso.

Doveva coltivare la memoria digitale di quel maxi che fu la sua vita e la vita dei sopravvissuti, come Giovanni Paparcuri, l’ex autista scampato alla morte nell’attentato Chinnici. Più spesso Mineo sentiva come un proprio dovere coltivare la memoria di chi non c'è più, di chi gli dava del lei, come Giovanni Falcone, ma era stato uno dei suoi tantissimi estimatori, forse il principale: non si vantava di quella stima, Mineo, sui social, nel frenetico mondo di oggi, era attivissimo ma non era solito ostentare un passato di cui era orgoglioso ma che gli aveva lasciato l’amaro che resta a chi crede nel libero Stato, sapendo che in fondo tanto libero, desideroso di liberarsi della mafia una volta per tutte, non era. E forse - lo diceva sempre a denti stretti - non lo è ancora.

 

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