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Il delitto Lima, mafia e Dc in Sicilia: 30 anni fa spari sulla Prima Repubblica

I conti furono saldati tutti in una volta, mentre lentamente l’opinione pubblica siciliana, scossa dalle stragi della primavera-estate precedente, si rendeva conto della necessità di spazzare via, assieme alla politica inquinata, anche gli inquinatori, i macellai della mafia

Qualcuno si salvò, qualcun altro riuscì a riciclarsi, ma nel complesso la Prima Repubblica siciliana finì quel 12 marzo di trent'anni fa, così come nel resto d’Italia l’arresto di Mario Chiesa del 17 febbraio, sempre del 1992, aveva segnato l’inizio della fine della classe politica che aveva prosperato grazie a Tangentopoli.

Il delitto Lima avvenne in una occasione che apparve simbolica e non casuale, perchè Lima stava andando al Palace Hotel a vedere la sala in cui il Divo Giulio, il suo dante causa, Andreotti, avrebbe dovuto parlare durante la campagna elettorale per le politiche del 5 aprile. La mafia, Totò Riina, il cognato Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Bernardo Provenzano - tutti all’epoca latitanti e impuniti - volevano farla pagare a entrambi.

Il maxiprocesso era stato una Waterloo, nonostante le promesse (o le speranze dei boss) della «bolla di sapone» in cui si sarebbe dovuto risolvere. L’associazione, il 30 gennaio del '92, quaranta giorni prima, aveva straperso, le non poche condanne erano state confermate, l’impunità era bell'e andata e con essa l’immagine di una Cosa nostra invincibile. Troppo, per i viddani di Riina, abituati alle insufficienze di prove e ai processi che si risolvevano col nulla di fatto. Lima e Andreotti furono visti come i traditori. Non solo loro: altri politici sarebbero dovuti morire ma la commissione di Cosa nostra si era data delle priorità.

Falcone e Borsellino, nemici mortali al pari di chi aveva fatto (o lasciato intendere di fare) promesse non mantenute. E la strage di Capaci, compiuta mentre Andreotti era lì lì per diventare presidente della Repubblica, fu il secondo segnale del «ringrazio» di un’associazione criminale dalla memoria di elefante. L’ultimo atto legato a quella logica distruttrice fu l’omicidio di Ignazio Salvo, commesso nella sua villa di Santa Flavia (Palermo). Un altro superpotente, stavolta nel campo delle esattorie, fu assassinato da due corleonesi doc, Brusca e Bagarella. I conti furono saldati tutti in una volta, mentre lentamente l’opinione pubblica siciliana, scossa dalle stragi della primavera-estate precedente, si rendeva conto della necessità di spazzare via, assieme alla politica inquinata, anche gli inquinatori, i macellai della mafia.

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