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Le indagini sulla strage di via D'Amelio, il pm: "Fu più grande depistaggio della storia"

Via D'Amelio a Palermo dopo l'attentato

Per l’accusa è stato il più grande depistaggio della storia italiana. Una definizione forte, la stessa che venne usata anni fa dalla corte d’assise che, per la prima volta in una sentenza, puntò il dito sul clamoroso tentativo di inquinare le indagini sulla strage di Via D’Amelio, uno dei crimini più efferati commessi da Cosa nostra. A Caltanissetta è il giorno della requisitoria della Procura che di quel depistaggio accusa tre funzionari dello Stato: i poliziotti Fabrizio Mattei, Mario Bo e Michele Ribaudo, imputati di aver creato a tavolino un castello accusatorio fasullo, riuscito, però, a reggere ad anni di processi. Gli imputati rispondono di calunnia aggravata dall’avere favorito la mafia nel quinto dibattimento istruito sull'attentato in cui, ormai quasi trent'anni fa, persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta.

«Mi scuso in anticipo con le parti civili perché la requisitoria che mi accingo a fare certamente non sarà adeguata a quella che sarebbe dovuta essere la conclusione di un processo di questa portata», ha detto il pm Stefano Luciani che ha ricordato i «numeri» del dibattimento: "70 udienze, 112 testimoni, 4.900 pagine di trascrizioni». Per l'accusa i fatti emersi sono chiari. I tre ex investigatori, che facevano parte del gruppo "Falcone-Borsellino", avrebbero costretto Vincenzo Scarantino, piccolo criminale palermitano, a mentire minacciandolo, picchiandolo, facendo su di lui pressioni psicologiche. Vessazioni preordinate e finalizzate a costruire falsi collaboratori di giustizia e una falsa verità sulla strage che solo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza riuscirono poi a smascherare. «Fu Spatuzza - dice Luciani - a raccontare una verità che da subito è apparsa dirompente. Ed era una verità che andava a sconvolgere ben due processi che si erano già celebrati per la strage di via D’Amelio, una verità che andava a mettere in discussione condanne all’ergastolo comminate sulla base di prove manipolate. Infatti era stata manipolata la collaborazione di Salvatore Candura, quella di Francesca Andriotta e infine quella di Vincenzo Scarantino». Luciani ha poi ricordato le vessazioni subite durante la detenzione a Pianosa da Scarantino, piccolo spacciatore assurto, nella falsa ricostruzione degli investigatori, al rango di boss al corrente dei più oscuri segreti della stagione stragista.

«I suoi precedenti - spiega il pm- erano assolutamente distonici rispetto al quadro che si è voluto rappresentare. Scarantino ha subito un pressing asfissiante. Interrogatori costanti e ripetuti, plurimi procedimenti penali, condanne per traffico di droga perché mentisse accusando persone che con la strage non c'entravano nulla». «La moglie - continua Luciani - raccontò che era un uomo robusto di oltre 100 chili. Quando lo vide a Venezia era già ridotto alla metà, a Pianosa era ormai in condizioni terribili». Fu lui stesso a raccontare che aveva incontrato a Pianosa Arnaldo La Barbera (ex capo del pool investigativo poi morto, ritenuto la mente del depistaggio ndr). Fu lui stesso a riferire che i poliziotti l’avrebbero picchiato, gli avrebbero messo i vermi nella minestra, gli avrebbero instillato il dubbio di essere malato di Hiv. Lo facevano spogliare nudo, gli dicevano che lo volevano impiccare. Vere e proprie torture che avrebbero fatto crollare un uomo insicuro, fragile costringendolo ad ammissioni fantasiose e ad accuse false. A Scarantino, insomma, ne è certa la Procura, fu fatto recitare un copione col quale chiudere in fretta l’indagine sulla strage e assicurare colpevoli facili alla giustizia. «Più andavo avanti e più bravo diventavo», ha ammesso il finto pentito ai pm. Una frase che la procura cita perché, per gli inquirenti, Scarantino non è una vittima. Contribuì al depistaggio, contribuì a inquinare l'inchiesta.

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