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Si uccide a 44 anni in carcere, l'urlo di dolore della famiglia: "Questi ragazzi vanno aiutati"

Il funerali è finito. E ora è il momento delle parole. Parole che escono con amarezza. Simone Melardi non è più un numero sulla coscienza di chi poteva fare, ma non ha fatto. Ma una storia da cui partire, affinché certe cose non succedano più, come ha rimarcato, in questi giorni, a più riprese, l'avvocata Rita Lucia Faro, legale della famiglia del catanese Simone Melardi, che si è tolto la vita nel carcere di Caltagirone, impiccandosi, all'età di 44 anni. Adesso, è la famiglia a spezzare il silenzio, raccontando chi era Simone. Il "loro" Simone. Tra le mura domestiche. «Simone era un ragazzino molto intelligente, vivace, sveglio e soprattutto sano. - inizia così una lettera, inviata al nostro giornale, dove la voce narrante è la mamma del giovane, morto suicida - All'età di 16 anni, Simone conobbe una ragazza e se ne innamorò perdutamente. Dopo un paio d'anni, però, si lasciarono. E lui poi partì per il servizio militare, a Chieti. Partenza che non voleva fare, perché la testa e il cuore erano da lei. Simone pensò bene di scappare dalla caserma. Ma essendoci il servizio obbligatorio, lo riportarono lì». La donna, affranta, racconta che un giorno, suo figlio, decise di salire su un palazzo, convinto che lo avrebbero riportato a casa: «Così non è stato. - continua la lettera - Senza avvisare la famiglia, lo hanno portato in una clinica psichiatrica, con la camicia di forza, come se mio figlio fosse un pazzo. Dopo averlo ricoverato, ci hanno chiamato per avvertirci che si trovava lì. E che non potevamo andarlo a prendere prima dei 15 giorni. Gli avevano fatto un TSO. Trascorsi i 15 giorni, andammo a prendere Simone. In quel momento, ho perso un figlio. Non era più il mio Simone. Cosa gli è successo in quella clinica? Cosa hanno fatto a mio figlio? Simone non aveva la forza nemmeno di camminare. Mangiava nella ciotola dei cani, aveva atteggiamenti paranoici e faceva cose assurde. Simone aveva paura dei medici, quando vedeva un camice bianco era spaventato. Cosa è successo? Domande che mi faccio, senza, però, riuscire a darmi una risposta». Nell'arco degli anni, Simone è stato ricoverato in tante strutture ospedaliere, che lo tenevano non più di 7 giorni. Il tempo passava e Simone, come spiega ancora la madre, distrutta, ha iniziato ad entrare in un tunnel bruttissimo, orribile, quello dell'alcool e della droga. Ed è andato a peggiorare sempre di più. E qui arriva un grido di dolore. Ma, soprattutto, d'aiuto. Che va accolto: «In tutto questo tempo non ho avuto - nessun aiuto, - conclude - perché strutture adeguate per questi ragazzi non ce ne sono. I ragazzi con queste patologie devono essere aiutati, non chiusi in un carcere. E addirittura lasciati soli. Episodi come quelli di mio figlio non devono accadere più. Devono aprire strutture adeguate per aiutare questi ragazzi. Ragazzi come Simone. E, purtroppo, come tanti altri».

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