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Il Premio Sicilia a Javier Cercas: "Viviamo in una dittatura del presente"

Va ancora ad uno scrittore di lingua spagnola, dopo Isabel Allende e Luis Sepúlveda, il Premio Sicilia, giunto quest'anno alla sua terza edizione e promosso, con il patrocinio della Regione Siciliana e dell'assessorato alla Cultura del Comune di Catania, da Taobuk Taormina International Book, il festival ideato e diretto da Antonella Ferrara in programma a Taormina dal 21 al 25 giugno (il tema che sarà declinato quest'anno è il desiderio). Javier Cercas, fine filologo, già docente di Letteratura spagnola all'Università di Girona, saggista e scrittore impegnato, oltre che opinionista per il quotidiano spagnolo El País, sarà premiato il prossimo 25 maggio nel Cortile Platamone nel Palazzo della Cultura di Catania (dialogare con l'autore il 3giornalista Andrea Nicastro, e a conclusione della serata ci sarà il concerto di Mario Incudine accompagnato dal suo Quartetto).

Sempre alla ricerca di “fantasmi” per tentare di entrare nelle pieghe della verità storica, Cercas che si dichiara un “europeista estremista” («l'Europa unita è l'unica utopia politica ragionevole che noi europei siamo stati in grado di creare» diceva al Salone del Libro 2018), nemico del nazionalismo, lancia la sua accusa contro quella che chiama la “dittatura del presente”, con la nostra sciocca capacità di dimenticare ciò che è accaduto persino una settimana fa. Perciò nelle sue narrazioni, da “Soldati di Salamina” (Premio Grinzane Cavour 2003), a “Il movente”, da “La velocità della luce” a “Le leggi della frontiera”, da “Anatomia di un istante” al suo ultimo romanzo “Il sovrano delle ombre” (Guanda), intreccia sempre due piani temporali: il presente e il passato (e il franchismo rappresenta certamente un passato che lo scrittore ha la responsabilità di buscar, di ricercare). Poiché se la storia, secondo la frase di Cervantes resa famosa da Borges, è la madre della verità, quel che racconta il narratore, mescolando finzione e documenti storici, finisce per essere quel che pensiamo sia realmente accaduto. Anche se poi la verità rispecchia la complessità della realtà, e in quelle “invenzioni non false” messe in atto dallo scrittore permangono ambiguità ed enigmi. Ai quali, dice Cercas, solo il lettore può dare la risposta.

Professor Cercas, Lei continua, con la sua opera narrativa, a investigare il passato. Perché?

«Perché non è ancora passato. Il problema è che viviamo in una dittatura del presente, secondo la quale quel che è accaduto ieri è “passato”, e quel che è accaduto la settimana passata è quasi la preistoria, di modo che molte persone pensano che il passato è qualcosa di alieno e remoto, che sta negli archivi delle biblioteche, e non è rilevante per il presente. Non è così. Non si tratta soltanto del fatto che non possiamo comprendere il presente senza il passato; è che il passato, e soprattutto il passato del quale ci sono memoria e testimoni, che è quel che mi interessa come scrittore, è una dimensione del presente senza la quale il presente è mutilato. Questo, questa complessità del presente che circonda anche il passato, è una delle cose che provano a mostrare alcuni tra i miei libri, che da questo punto di vista possono essere letti come una specie di battaglia contro la dittatura del presente».

Il tema della menzogna o dell'impostura appare spesso nella Sua narrativa. Forse perché è narrativamente interessante?

«A me lo sembra, forse perché la menzogna è l'altra faccia della verità, che è ciò che sempre cerca uno scrittore. Se questo non fosse abbastanza, è di una tremenda attualità. Viviamo in un mondo nel quale regna la menzogna, non perché non si sia mai mentito tanto come ora, ma perché la menzogna non ha avuto mai tanta capacità di diffusione come oggi; inoltre, la verità sembra che non importi più: basti solo ricordare che l'uomo più potente del mondo è un bugiardo compulsivo, cosa che ai suoi elettori non sembra assolutamente importare. E il problema è che la verità rende le donne e gli uomini liberi, come sappiamo dal Vangelo, e invece la menzogna rende soltanto schiavi».

E, infatti, dai “Soldati di Salamina” al “Sovrano delle ombre”, tre parole attraversano la sua narrativa: menzogna, verità, enigma.

«Può essere. Delle prime due ho già parlato. Quanto alla terza, è vero che i miei romanzi partono sempre da un enigma o da una domanda, come i romanzi polizieschi, e che nella sostanza consistono in un intento di risolverlo o di rispondervi: solo che, a differenza di quel che avviene solitamente nei romanzi polizieschi, nei miei racconti alla conclusione non si risolve l'enigma, non si dà una risposta alla domanda, o almeno non c'è una risposta chiara, inequivocabile e esauriente, ma ambigua, poliedrica, contraddittoria, che è l'unica risposta che, a mio giudizio, possono permettersi i romanzi: in realtà, la risposta è la ricerca personale di una risposta, è la propria domanda, il proprio libro. O se si preferisce: nei miei romanzi è il lettore l'unico che può dare la risposta, risolvere l'enigma. Perciò per me scrivere un romanzo consiste nel formulare una domanda complessa nella maniera più complessa possibile».

Lei, Professore, è un abile creatore di trame e personaggi: chi è “il sovrano delle ombre”? Un eroe? Una vittima della storia?

«Entrambe le cose allo stesso tempo, credo. Si chiamava Manuel Mena, era lo zio di mia madre e l'eroe ufficiale della mia famiglia per anni: un giovane idealista che nel 1936 si arruolò volontario nell'esercito di Franco, credendo che andava a salvare la sua famiglia, la sua patria e la sua religione, e che morì due anni dopo, nella battaglia più cruenta della storia della Spagna, la battaglia dell'Ebro, nel lato sbagliato della storia. C'è una cosa che all'apparenza è difficile accettare per gli esseri umani, ed è che anche le persone buone possono difendere cattive cause (e al contrario)».

Lei, Professore, intreccia spesso cronaca, finzione e documento storico.

«E saggio e biografia e autobiografia e molte altre cose. O lo spero. Il fatto è che il romanzo, che è il genere più libero che esista, è anche un genere che permette queste commistioni: in realtà, un romanzo può essere un banchetto con molti piatti. Questo è spesso quel che provano a fare i miei romanzi».

Se si scrive per sapere di più, è anche inevitabile giudicare…

«Si scrive per comprendere. Comprendere non significa giustificare; significa esattamente il contrario; darci gli strumenti per non tornare a commettere gli stessi errori. Il problema è che noi esseri umani sembriamo impegnati a dare ragione a Bernard Shaw, che scrisse: “L'unica cosa che si apprende dall'esperienza è che non si apprende nulla dell'esperienza”».

Cosa pensa, Professore, della parola identità? È pericolosa?

«Dipende da come si usa, suppongo, come avviene con tutte o quasi tutte le parole. Il problema, nel caso di questa, è che quasi mai la capisco, neppure quando si applica agli esseri umani, perché ognuno di noi è tanti, quasi una folla: come scrisse Montaigne, “c'è tanta differenza tra noi e noi stessi come tra noi e gli altri”. In quanto alle identità collettive, sono soltanto costruzioni politiche, invenzioni che il potere usa per dominarci e di fronte alle quali si deve resistere».

Qual è oggi la responsabilità etica dello scrittore?

«Quella di sempre: scrivere il meglio possibile. È dire, mostrare che la realtà è molto più complessa di quel che sembra».

Il tema del desiderio passa attraverso la poesia, la letteratura, la filosofia, attraverso tutta la nostra vita. Da scrittore, che relazione ha con il desiderio?

«Come scrittore non lo so, ma come persona, complicatissima, come quella di tutti. Noi esseri umani siamo fatti di desiderio, quel che ci riempie di gioia e al tempo stesso di sofferenza, perché il desiderio, per definizione, non si può soddisfare. La cosa sensata sarebbe desiderare il meno possibile, come vorrebbe Schopenhauer o come sostengono i buddisti, per soffrire il meno possibile; ma siccome non siamo di buonsenso, e inoltre vogliamo continuare a godere, continuiamo a desiderare e continuiamo a soffrire. Non abbiamo rimedio»

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