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Da marinai di Bagnara a padroni di Palermo, la storia dei Florio è un libro di successo

Comincia con un terremoto in Calabria, quel miracolo siciliano chiamato Florio. Comincia con un terremoto in Calabria, quel miracolo editoriale intitolato “I leoni di Sicilia” della siciliana Stefania Auci, appena uscito per i tipi di Nord e già venduto in Stati Uniti, Germania, Francia, Spagna e Olanda, opzionato per una serie tv e in vetta alle classifiche (che per ora sono prodighe di “miracoli”, con ben tre romanzi siciliani ai primi posti, tra la trapanese, ma palermitana d'elezione, Auci, la messinese Alessia Gazzola e la netina-catanese Cristina Cassar Scalia).

Comincia in Calabria la storia della più famosa famiglia siciliana tra Otto e Novecento, quando il volto dell'Europa e del mondo cambia, e un vento nuovo soffia persino sull'Isola triangolare così caparbia e restìa al cambiamento, coi suoi gattopardi e i suoi tesori tarlati e i suoi patrimoni estinti. Quel vento, nel romanzo della Auci, sa di spezie e di vino, agita il pizzo e la seta, diffonde la polvere del cortice e l'odore acre dello zolfo, gonfia le vele delle navi cariche di merci, spinge dappertutto il progetto, la visione d'un piccolissimo commerciante “bagnaroto” che sogna il sogno più ardito di tutti: prendersi quella città, Palermo, serva e padrona, irriducibile principessa pezzente, preda di tutti eppure imprendibile.

Un sogno che dura più d'un secolo, e ancora sfavilla nella memoria collettiva. Un sogno che è stato raccontato dagli storici o dai cronisti mondani, analizzato con gli strumenti dell'economia o descritto come fenomeno di costume, ma non era mai stato narrato come un romanzo. Lo ha fatto lei, Stefania Auci - che oggi presenterà il libro a Messina - , insegnante con la passione per la letteratura e la storia (ha già pubblicato tre romanzi), perché l'una riesce a ridarci il senso umano, profondo, dell'altra.

“I leoni di Sicilia” è il primo di due volumi che ricostruiscono con maestria la storia dei Florio, l'ascesa e la caduta dei “leoni di Sicilia”, che giunti dalla Calabria a Palermo cominciano con una piccola bottega di spezie, un' “aromateria”: il romanzo, tra l'altro, è una miniera di parole bellissime e desuete, che sono solo una parte della minuziosa ricerca che l'autrice ha sostenuto, per tre anni, cercando ogni dettaglio, ogni particolare, andando sui luoghi dei Florio, «lasciando che fossero i luoghi stessi a respirare e a raccontarmi le storie».

Perché un romanzo storico e perché proprio i Florio?

«Io sono una grande appassionata di storia, e questa passione la devo a mio padre, storico dilettante. I Florio perché mi andava di parlare di una famiglia che fosse davvero leggendaria, che avesse segnato la storia della città in cui vivo, e non solo. Nell'immaginario collettivo molti hanno presente la divina Franca Florio, amata dagli artisti: ma prima di lei c'è tutto un mondo, importante, ricco di sfumature, di vicende, ed è quello che ho voluto studiare io».

Io credo che il tuo sia anche un romanzo sull'appartenenza: ai luoghi, alle persone. Siamo ciò che scegliamo e vogliamo, o inevitabilmente siamo ciò che ci tocca essere (figlio di un Florio, bagnaroto, palermitano, “rinisciuto”, nobile, ignobile...)?

«Sì, riguarda fortemente l'appartenenza. Credo che la questione sia strettamente legata al modo in cui uno pensa di appartenere a un determinato luogo. Ci sono siciliani che, una volta fuori dalla Sicilia, sembra vogliano negare quest'appartenenza. Per me la Sicilia è madre, radice, carne. Qualcosa di fondamentale, viscerale».

E l'appartenenza sarà un rovello, per i primi Florio: Ignazio Florio, il primo a sfidare il sistema di caste e di appartenenze siciliane e palermitane, a sparigliare con le sue idee, il suo lavoro, la sua caparbietà; il nipote Vincenzo, il primo grande “capitano” e inventore del “brand” Florio che esce dalla Sicilia e va dappertutto; Giuseppina, madre di Vincenzo, la prima delle donne Florio, che però mai smetterà di invocare la sua Bagnara perduta. Ma le donne di casa Florio, pur in un mondo che negava quasi tutto alle donne - e ben prima dei successi della mitica Franca (l'ultima, morta nel 1950) - danno la loro parte di forza, di dedizione, di sostegno all'epopea familiare di cui sono artefici e vessilliferi i maschi. Un ruolo difficile, che l'autrice ha ricostruito con pazienza.

Le donne sono importantissime, ma la loro condizione è ingrata e difficile (esemplare la figura di Giulia, moglie di Vincenzo, per quanto amata), e la tua scrittura lo sottolinea. Ci sarà un riscatto?

«Non si tratta in realtà di figure che vengono schiacciate, ma un riscatto è difficile da pensare. Certo ci sarà più dinamismo nelle tre figure femminili del secondo volume, anche quelle forti e molto determinate. Io ho molto a cuore, come sai, la descrizione della realtà sociale e della condizione della donna, e spero di rendere giustizia a donne grandi, dalla personalità fuori dal comune, come sono state tutte le donne Florio».

Cura del dettaglio minuto, ma anche della cornice storica: ognuno dei capitoli è suggestivamente intitolato a un tipo di merce (spezie, seta, cortice, zolfo, pizzo...), e tuttavia non sono categorie del commercio ma dell'immaginario, simboli di questa lotta della volontà col mondo.

Attraverso questi movimenti di merci, che a loro volta tramano la storia dei Florio, rileggiamo tutta la storia recente della Sicilia. Ma quello che vediamo con più chiarezza è la contrapposizione tra il nuovo che avanza e il vecchio che non indietreggia. Un'antinomia ben nota agli scrittori siciliani. I Florio sono simbolici, per questo: incarnano un nuovo scintillante, ma riescono davvero a cambiare quello che non si può cambiare?

«Sì, è vero, i siciliani resistono a tutto quel che è nuovo, forse per un'atavica paura di peggiorare la propria condizione, come avviene sempre nelle terre di conquista. Secondo me la grandezza del capostipite Vincenzo è proprio nella consapevolezza di non essere del tutto siciliano, di essere fuori dagli schemi, di stare a cavallo tra i mondi. La sua amicizia con gli inglesi, la sua capacità di conoscere i mercati esteri lo rendono davvero straordinario. Invece il rapporto con la società siciliana condizionerà pesantemente il figlio Ignazio, il senatore, e il figlio di lui, che saranno all'opposto. Io definisco l'ultima generazione dei Florio “caduti fuori dal tempo”».

In tanti punti del romanzo, «tra lo stomaco e la gola» succedono un sacco di cose, a tutti questi personaggi che continuano a rimangiarsi le emozioni, a ricacciarle giù, a ingoiarle. E tu, pur scrivendo di passioni assolute, condividi il loro ritegno a dire, a pensare, la parola “cuore”...

«Io non uso mai la parola “cuore”, come non parlo quasi mai di amore. Per i Florio, specie per Vincenzo, l'affetto è nell'avere, nel prendere, nel possedere. Quelli che parlano il linguaggio dei sentimenti, senza dichiararli ma mettendoli nei gesti, sono Giulia e Ignazio, il primo, lo zio di Vincenzo: uno dei personaggi più colmi di affetto che ho mai descritto, ma ammantato da grandissimo pudore, da grandissimo senso del rispetto e del dovere».

Sono tutti delineati con grande cura, messi in scena anche nelle loro debolezze, raggiunti in tutte le loro zone d'ombra: quale personaggio hai amato di più, e quale ti ha fatto più penare per raggiungerlo, toccarlo, capirne i segreti?

«Giuseppina e Vincenzo. Personaggi “scomodi”, l'una indurita dalle scelte imposte dal marito, l'altro che diventa un duro, che può sembrare anaffettivo. Ma li ho amati molto, e questo si sente».

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