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"Io pacifista in trincea", il libro nato dal lavoro di un ricercatore di Messina

«Questa storia l'ho scoperta per caso. Nel 2017, per motivi di studio, mi trovavo alla Columbia University di New York, alla ricerca di fonti per la tesi di dottorato su lettere, diari e memorie dei siciliani durante la Grande guerra. Nella biblioteca del campus trovai una copia di“Bodyguard Unseen”, racconto autobiografico di Vincenzo D'Aquila, giovane italo-americano di New York, figlio di immigrati, originario di Palermo, partito volontario per la Grande guerra. Cominciai a leggerlo, anche perché sapevo che lo storico svedese Peter Englund aveva citato questa storia, assieme con altre, in un suo libro del 2008, tradotto anche in italiano per Einaudi, dal titolo “La bellezza e l'orrore.

La Grande guerra narrata in diciannove destini. A parlarci di questa storia singolare è Claudio Staiti, messinese, dottorando di ricerca in Storia contemporanea all'Università di Messina e borsista del Centro universitario cattolico di Roma, oltre che giornalista pubblicista e collaboratore della Gazzetta. Il libro di Vincenzo D'Aquila lo ha poi tradotto e curato per i tipi di Donzelli: ne è venuto fuori “Io, pacifista in trincea. Un italoamericano nella Grande guerra”, un testo molto interessante sia come documento - con la prefazione di Emilio Franzina e l'apparato di note - sia come narrazione, con il racconto della Grande guerra, una follia, dal punto di vista di Vincenzo D'Aquila.

Il volume ha ottenuto il patrocinio dell'Assemblea Regionale Siciliana ed è stato presentato al Palazzo dei Normanni, mentre a Messina sarà presentato domani, alle 17.30, all'Auditorium della Biblioteca provinciale dei Cappuccini, accanto alla Chiesa di Pompei, con i professori Federico Martino e Daniele Pompejano.

Claudio, chi era Vincenzo D'Aquila?

«Se non avesse scritto nulla, avrei risposto: uno dei milioni di emigrati italiani in America. Ma il fatto che abbia raccontato la sua personale “odissea di guerra e pazzia” lo fa uscire da un altrimenti inevitabile anonimato. È, principalmente, credo, un sognatore. In questa vicenda, in cui lui è l'antieroe per eccellenza (davanti al nemico la sua “chimerica promessa” gli impedisce di uccidere e, anzi, lui fa di tutto per scappare dal fronte), emerge bene l'atrocità della guerra. Non nega gli atti di eroismo che ci sono pur stati, ma condanna il massacro dei suoi commilitoni mandati a morte come dei “topolini in una stanza affollata di gatti affamati” e la disparità di condizione esistente tra i comandanti e i semplici soldati. In America, dopo la guerra, da figlio di bottaio che era riuscirà a diventare imprenditore nel settore dell'editoria. Morirà per un banale incidente domestico, a 82 anni, nel 1975. Mi sono commosso quando, dopo una forsennata ricerca, sono riuscito a trovare la sua tomba e a deporre un fiore».

Claudio, tu hai tradotto un libro pubblicato negli Usa nel 1931. Qual è stato il viaggio del libro sino a oggi?

«Quando uscì, il libro fu apprezzato da molti ma da diverse persone considerato quasi un invito alla diserzione. E nel giro di pochi mesi non se ne parlò più. Forse perché l'autore non era uno scrittore di professione, forse perché la società americana non era ancora pronta ad accettare un inno così esplicito alla pace. Il fatto che ad averlo scritto fosse un italoamericano non poteva essere apprezzato dalle élite delle “colonie” di immigrati che sostenevano il fascismo e il suo mito della forza militare; d'altro canto, anche larga parte del pubblico americano non nascondeva le simpatie per Mussolini».

In Italia il testo era inedito fino alla tua traduzione. Quale interesse credi possa avere oggi, al di là del valore documentario e della testimonianza?

«In un passaggio del libro Vincenzo dice che “fintanto che la natura umana non cambierà e gli uomini non la smetteranno di combattersi tra loro, le guerre non cesseranno di esistere”, e in un altro, prevedendo (non era il solo) che un'altra guerra era “dietro l'angolo”, afferma che “una sollevazione pubblica, simile a un terremoto, dovrebbe spingere i principali governi del mondo ad attuare misure pratiche per tenere al guinzaglio i piantagrane e assicurare la pace universale”. Il suo monito a fermare il vociare d'odio è tristemente ancora valido».

A un certo punto il racconto assume un aspetto “visionario”, quasi misticheggiante. Cosa ci dice del personaggio?

«La guerra per D'Aquila è in maniera evidente antievangelica. Ne è convinto al punto che per “ristabilire” una lettura più fedele del messaggio cristiano, decide di “farsi” profeta e, come un novello San Francesco, si spoglia della divisa per indossare non il saio ma il camice di un manicomio e lì inizia a fare “apostolato”. Il fil rouge che attraversa la narrazione è rappresentato dalle poche righe tratte dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi che l'autore inserisce all'inizio del libro: D'Aquila si sente uno dei “deboli” e degli “stolti” ai quali Dio ha riservato il privilegio di poter indicare la strada della verità al mondo».

Nella tua introduzione, ti addentri nel dato clinico, dato che D'Aquila fu internato in manicomio. Qual è la verità oltre il racconto?

«Vincenzo, evitando il fronte, fu internato in due manicomi, a Udine e a Siena. Nella cartella clinica leggiamo le annotazioni dei medici sulla sua salute e anche tre lettere, scritte di suo pugno nell'aprile 1916. Gli psichiatri parlarono di “attività delirante a contenuto assurdo con prevalenti idee di grandezza”. Non sappiamo se D'Aquila manifestò mai davvero apertamente di fronte ai superiori la sua vena pacifista. Una volta che fu dichiarato “guarito” non fu rimandato al fronte, e ciò è un indizio a credere che forse temevano potesse “contagiare” altri e non ne volevano di certo fare un “martire”».

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