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“Demofollia. La Repubblica dei paradossi”, l'ultimo libro di Ainis è una radiografia del potere

Una radiografia del potere, così Michele Ainis, illustre costituzionalista messinese, ha definito “Demofollia. La Repubblica dei paradossi” (La Nave di Teseo), il suo più recente libro che ospita una selezione degli editoriali pubblicati nell'ultimo triennio dall'autore sulle colonne dell'Espresso e di Repubblica, «per l'occasione riveduti e aggiornati, se non riscritti nuovamente».

Perché intanto i vari pezzi delle nostre istituzioni vengono «smontati e rimontati come un Lego», perché ciascun partito è giustizialista e garantista al tempo stesso, perché «una volta ci innamoriamo del maggioritario e poi sperimentiamo un ritorno di fiamma per il proporzionale», perché c'è un'overdose di semplificazioni, perché «la Costituzione, con il suo cattivo rendimento, è diventata un bersaglio e vive un autunno che dura ormai da quarant'anni», perché «gli italiani sono tormentati da una terribile emicrania: la capocrazia».

Insomma, se la materia, trattata con fine ironia, viene dipanata alfabeticamente, da Asilo, Autonomia, Bilancio, Burocrati, Capocrazia e attraverso Giudici, Ius soli, Ministeri, a Poltrone, Populismo, Poltrone, Rinvii, Sovranismo e via dicendo, la vera fonte di questo libro - scrive il professore - è la politica italiana, «con i suoi umori volatili e incoerenti, con lo sguardo corto attraverso il quale cura (si fa per dire) i nostri destini, con i paradossi che dissemina nell'organizzazione dello Stato»: una demofollia, appunto. Ne abbiamo parlato con l'autore, che sta presentando il libro in tutta Italia, e oggi sarà a Messina.

Professore, in questo suo dizionario mi pare che lei usi una cifra ironica ancora più amara che nei suoi testi precedenti. Perché?
«Cerco sempre di coltivare l'ironia perché siamo immersi in un tempo in cui suonano invettive, in cui c'è un modo di parlare urlato, involgarito, perciò usare il registro ironico anziché la contumelia è anche un modo per far vedere che “il re è nudo”. Eppure, trovo che sia un registro poco frequentato».
Demofollia è un titolo felice. Lo ha scelto lei?
«Sì. Con Elisabetta Sgarbi eravamo indecisi tra demofollia e demopazzia: il secondo aveva una consonanza con “democrazia”, ma il primo è più letterario, quindi abbiamo optato per questo. La cosa curiosa è che in una delle presentazioni del libro qualcuno mi ha fatto notare che in inglese democrazia si dice “democrazy” e che la seconda parte del termine, “crazy”, significa “follia”».

Dunque, a quale punto di follia siamo?
«Spero non a un punto di non ritorno... Però, come scrivo nel libro, la democrazia è un'impalcatura razionale in cui le scelte pubbliche dovrebbero seguire un criterio razionale come ci hanno insegnato 25 secoli fa coloro che inventarono la democrazia. Quando questo non accade, quando l'impalcatura crolla, può entrare in crisi tutto il sistema, e il seme della follia s'impadronisce della cittadella pubblica. È anche vero che c'è una crisi mondiale delle democrazie e lo vediamo con Trump, perché c'è una crisi dei Parlamenti, dei partiti; avviene così che ci sia uno solo al comando, un “capo”. Ora, quando il capo era Coppi ci faceva piacere, ma se sono Putin o Trump ci fa un po' paura... In Italia la cosa è aggravata da fattori nostri, dalla deriva del sistema istituzionale, dallo sguardo corto, che pensa al domani immediato, non a quello che viene dopo il domani. Ne sono esempio l'atteggiamento mutevole sulla giustizia, l'altalena elettorale, la volubilità con le Regioni, la politica che segue l'ultimo umore popolare. Chi governa dovrebbe assumere responsabilità di decisioni che magari al momento risultano impopolari, ma che saranno popolari domani».

E questo è attribuibile solo all'ignoranza imperante?
«L'ignoranza è un fattore aggravato dal dominio della rete nei rapporti sociali. Mentre un libro si prende uno spazio di riflessione, perché la parola scritta induce all'immaginazione, al pensiero, l'immediatezza sui social è umorale. Quello che è in crisi è la capacità di riflettere sulle cose».
E quali sono gli altri fattori, professore?
«C'è un impoverimento generale. C'è una regola generale della democrazia che chi è costituzionalista come me osserva: studiare le regole del potere. Ora, da sempre, l'essere umano fa di tutto per conquistare il potere, ma anche, da 25 secoli, di “tagliare le unghie” al potere. E per farlo ci sono dei “congegni”, come le elezioni. Ma una regola altrettanto importante è la responsabilità. La democrazia è rispondere di quel che si fa; e invece quel che vedo è fuga di responsabilità, con il cattivo costume di dare sempre la colpa agli altri».

Qual è il capitolo o i capitoli del libro che le sono più cari?
«Il capitolo intitolato “Gentilezza”, che nasce da una copertina di Cultura pubblicata da Repubblica. Ricevetti una mail da Eugenio Scalfari, che mi fece capire ancora di più la Costituzione, fatta di parole gentili, accoglienti, e quindi generali, vaghe, mai specifiche. E c'è un altro capitolo che mi sta a cuore, quello intitolato “Maestri”. Molti non ci sono più, è vero, ma non perché in Italia manchino le intelligenze o le competenze, manca piuttosto un sistema che sappia allevarle. E che poi sia in grado di riconoscerle, sempre se non si va avanti per altri fattori effimeri che non siano lo studio, se le classi dirigenti non prendono in mano neanche un libro, se ogni ateneo promuove i cuccioli di casa, sbarrando la porta a chi bussa da fuori».

Ma qual è, professore, la Costituzione migliore?
«Quella che dura più a lungo (in America dura da 200 anni), non quella da Milleproroghe che ogni anno cambia. È quella che dovrebbe sopravvivere alla generazione che l'ha scritta e dovrebbe durare in relazione alla sofferenza della generazione che l'ha scritta. Il lascito dei Padri Costituenti, ormai tutti morti, è questo; e il pregio maggiore è che esso deriva da circostanze storiche drammatiche, nasce da una curva storica difficile».

In questo tempo di confusione, e ad essere confusi sono non solo i giovani, ma gli adulti, e anche gli anziani, come trovare ordine, come fare un po' di luce?
«Bisogna prendere cinque minuti per riflettere e prima di parlare, anche tra amici o nella quotidianità, pensare prima di usare le parole, non “sputare” giudizi o idee su quello che viene assorbito al momento dai social o dai talkshow».

Cosa pensa delle “Sardine”? Verranno fagocitate da qualche partito, si omologheranno o resisteranno?
«C'è il fatto positivo che le “Sardine” usano due leitmotiv: parole gentili e parole della Costituzione. Staremo comunque a vedere, stanno resistendo. I movimenti ci sono sempre stati, non è detto che per avere forza debbano diventare partiti. Ora c'è il movimento ambientalista che si muove, appunto, per quella che è una priorità della nostra stessa esistenza sul pianeta. Ci sono stati movimenti come il '68 o come il movimento femminista, e non sono mai diventati partiti, ma hanno scavato radici profonde».

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