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Cancellature e versi poetici, il nuovo libro del barcellonese Emilio Isgrò

Nessuna contraddizione: «Cancellature e versi poetici - spiega - sono due facce della stessa medaglia. In un caso penso la parola per cancellarla, nell'altro la penso per scriverla». Non solo, già il titolo della nuova raccolta poetica di Emilio Isgrò, “Quel che resta di Dio” (edizioni Guanda), sembra indicare un bilancio, cioè quel che resta - per lui stesso, ma anche per tutti noi perché l'azione dell'artista è aperta al mondo in generale - dopo le “cancellature”, l'azione un po' performativa e un po' pur sempre pittorica, che lo ha reso celebre.

Nell'affollatissima presentazione del libro, con letture di Lella Costa, nella Galleria 77, Isgrò ha chiarito come, secondo lui, «quel che resta di Dio siamo noi, è la nostra vita». E se Dio, espressione massima, è nel titolo in copertina, nei vari capitoli “quel che resta…” precede vari argomenti: …della carne, del dopoguerra, dell'arte, dell'America, dei lupi, degli Isgrò, dell'amore, dell'amore senza alberi, del Mediterraneo.

Il problema, dunque, su cui la poesia di Isgrò si appunta, polemizza, ironizza e svela, parte dal mondo dell'arte e della letteratura per superarne i confini fino al supremo concetto di Dio. Tutto allo scopo di una verifica della nostra società dopo le modifiche provocate dalla comunicazione virtuale, quando la cancellazione non è più un atto artistico e concettuale né punta a mettere in evidenza ciò che non si cancella né tanto meno indica percorsi alternativi tra le parole. L'era del messaggio attraverso le chat toglie e basta, toglie umanità e santità, cultura e sentimenti, azioni e fisicità. Alla lettura del libro, l'intento polemico e il richiamo a una sanità mentale sempre più sfuggente e dai confini incerti, appare evidente e concreto. Perché appunto la poesia di Isgrò, pur utilizzando forme classiche quali il sonetto e le terzine (senza rime e spesso con accapo non convenzionali, che hanno la forza del contemporaneo e non dell'antico), è nobilmente materiale, espressione del corpo e della fisicità quanto della mente, logica e anche spregiudicata, che non evita i problemi, anzi li agita e li conclama.

Proviamo con due esempi. Uno è “Il dubbio di Lorenzo il Magnifico”: «Piove arte da tutti i buchi, / da tutti i pori: / E Leonardo grandina alla pari / di Giotto e Michelangelo, bruchi / assatanati / di successo e di denari. // E come mi difendo da tutto / questo rosso che mi piove addosso / e mi ributta indietro / con tutto il suo disprezzo? // Io niente so di prezzo e di consumi, / ma so tutto di te, giovane amico. / E chiedo lumi / a chi me li può dare / in questo intrico / di segni infausti e di parole amare».

L'altro, diverso, è “Casalinga”: «Eri una rosa sgrètola, / eri la voluttà. / Ma quando la mia mano candida // ti accarezzò la coscia canterina / (giacché anche le cosce / cantano, si sa…) //quando la mia mano energica / ti sbatacchiò la nuca / delucidata a cera // allora tu, eterna casalinga, mi mostrasti la lingua / me la cacciasti in gola».

Isgrò, artista visivo, poeta, narratore e drammaturgo, è nato 82 anni fa a Barcellona Pozzo di Gotto ed è rimasto molto legato alla sua terra, anche se Milano lo ama, tanto da avergli consegnato nello scorso dicembre l'Ambrogino d'oro, massima onorificenza cittadina. Nel raccontare come fosse diverso il mondo della poesia italiana al tempo del suo primo libro in versi (“Fiere del Sud”, 1956) ha ricordato il suo grande concittadino Bartolo Cattafi e ha voluto leggere una poesia di questa raccolta (con molti richiami alla sua terra, basti pensare a “Preghiera alla Madonna Nera del Tindari”) scritta in dialetto, esempio anche questo di un aggancio alla tradizione con parole e concetti pur lontani da essa. “Presepio anni Cinquanta”, infatti, parte da un dirompente «”Budda mi chiamo” dissi u' Bammineddu» e arriva a «”Budda o non Budda” suspiràu so mamma / “almeno questo non mi muore in croce”».

“Quel che resta di Dio” contiene poesie scritte tra il 1981 e il 2019, «fittamente rimaneggiate», dice l'autore, Come sempre accade quando dietro i versi ci sono la voglia e la capacità di capire, appaiono parole di preveggenza. Titoli come “Ciò che un Papa non può dire” e “Ciò che un Papa non può fare” oggi sembrano volteggiare sulle vicende vaticane. «In ogni caso, anche se non sono credente - assicura Isgrò - un amico teologo mi ha detto che sono da assolvere».

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