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Recuperare la “voce” di Jolanda Insana, la poetessa di Messina

Manca, la sua voce. Dalla «rema morta» di questo presente manca la sua voce aspra, dissonante, contaminata. Il suo ritmo incalzante, la sua percussione sacra. Il suo aspetto da Gorgone, da Grande Madre senza figli, perché tutto il mondo - e tutte le creature, animate e inanimate - le era figlio, aveva la sua cura. Jolanda Insana, la poetessa di Messina e dello Stretto, morta nel 2016 a 79 anni, lascia un'eredità vasta, pesante, ancorché non visibile. Il suo spirito aleggia, nei luoghi che non solo aveva amato, ma che erano diventati le sue prime miniere e cave: da lì aveva tratto la pasta magmatica della sua lingua di profetessa.

Del dialetto più vivido, della tradizione antica magnogreca e latina, della stessa storia di traumi e devastazioni della città (la ferita del 1908, che non aveva visto, le macerie della guerra, che invece aveva vissuto) si alimentava la sua fucina di ciclopessa e titana, la sua distilleria di Circe, la sua sapienza di combinatrice di sillabe, di artefice alchemica, mai pacificata col linguaggio, sempre in “Sciarra amara” (dal titolo magistrale della sua prima raccolta poetica, del 1977), “sciarra” con l'imperativo d'esprimersi, con la resistenza della lingua, con la sua parte morta fatta di esteriorità, banalizzazioni, nuove povertà dell'eloquio e dell'esistenza.

Jolanda la traduttrice dal greco e dal latino, non per “trasportare” passivamente parole da un idioma all'altro, ma per scavare dentro la carne delle cose, deporre uova, aspettarne la schiusa, ricreare i mondi. Jolanda la fustigatrice del potere, che osservava coi suoi occhi di bragia e poi raccontava in certi scritti fulminanti (il «democraticcio con la puzzetta sotto il naso», i «profumieri e banchieri», ). Jolanda che in qualunque macchia di verde, fosse pure uno stento spartitraffico, scorgeva la resistenza minuta di chissà quale erba estinta, che raccoglieva, cucinava, imbandiva (la stessa cosa che faceva col linguaggio).

Manca moltissimo, Jolanda Insana, e la sua poesia - sparsa in tanti luoghi che non sono solo quelli consueti della poesia, le edizioni compìte chiosate dai critici laureati - costituisce ancora oggi un potentissimo appello. Chi l'ha ascoltata anche una volta sola lo sa, riesce a tendere l'orecchio. E a questo appello hanno risposto due dei suoi più devoti amici e cultori, i ricercatori Gianfranco Ferraro e Giuseppe Lo Castro (uno all'Unical, l'altro a Lisbona), che hanno messo assieme, con un grande e tenace lavoro, il volume, fresco di stampa, «“Pupara sono”. Per la poesia di Jolanda Insana» (Falco editore).

È una raccolta di saggi, interventi, interviste di cui Jolanda Insana e la sua straordinaria poesia sono oggetto, ma anche di inediti e scritti rari (e persino alcune opere grafiche) della stessa poetessa, il tutto completato da una bibliografia minutissima, pur nella consapevolezza dell'esistenza, ai tempi della Rete, d'una galassia di video-interviste e scritti tutta da esplorare. Ma soprattutto è la risposta all'appello che viene da quel corpus (e mai termine fu più vero, per quella poesia che dal corpo nasceva, che era in qualche modo “il corpo della voce”). I curatori lo scrivono nella brevissima premessa, intitolata «Una promessa e uno scongiuro». Due cose che la poesia di Jolanda Insana era, è: sortilegio e anatema, «estrema arte umana di intervento sul dolore» - come scrive Ferraro.

Un libro che è tante cose, che porta tante voci, e forse la parola chiave è «innesto», che dà conto pure dell'attitudine di coltivatrice e giardiniera della parola che era Jolanda, della coesistenza, in lei, della tecnica minuta e artigiana e del dominio magico delle potenti forze della natura-biologia del pianeta o del linguaggio, indifferentemente. Ci sono i saggi dei due curatori, e di Guido Boffi, Giancarlo Alfano, Giovanna Ioli, Paulina Malicka, il breve “Epilogo” di Pietro Frassica, le interviste della sottoscritta e di Patrizia Danzè, per le colonne di questo giornale. Tutti inframezzati da scritti, inediti o difficilmente reperibili, di Jolanda, da sue rare opere grafiche: non una raccolta ma piuttosto un crocevia, un'indicazione di possibili rotte e percorsi (e la metafora della mappa è quella scelta per uno dei saggi di Ferraro: “Una poesia di verità: mappe in forma di scrittura”), l'esperimento d'una continua evocazione, come era la poesia di Jolanda, quella provocazione infinita e immensa alla materia della lingua.

Siamo stati fedeli «a quella insorgenza costante della parola» (e che privilegio poterlo dire, stare dentro quel crocevia, che come per gli antichi era luogo sacro abitato da divinità terribili), e lo saremo ancora e sempre. A cominciare dalle prime due presentazioni del libro (ma la parola “presentazione” non sarebbe mai piaciuta a Jolanda: l'avrebbe grattata via per far uscire qualcosa d'altro), a Messina, doverosamente (che Messina, non solo quella del presente, era centro interiore di ogni crocevia, per Jolanda), domani alle 18,30 alla libreria Colapesce (con i curatori ci sarà Tonino Cafeo), e sabato a Cosenza, Libreria Ubik, alle 18 (con i curatori, Anna Petrungaro e Franco Araniti).

Ci sarà anche Jolanda: la sua viva voce, in brevi video in cui lei si «cala la visiera e dà coltellate di bellezza». Come per gli antichi, la poesia è anzitutto suono e percussione, ritmo di natura che trascende la natura e poi la rappresenta, la evoca, la ammansisce, la supera. Come per gli antichi, attorno alla voce del poeta si rifà in ogni istante una comunità. Jolanda lo sapeva.

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