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Medea, una nessuna e centomila: applausi per Lunetta Savino a Siracusa

Ah, Medea, sorella, sei la prima a venirci a visitare in questo strano tempo rovesciato, in questo strano teatro rovesciato, dove le cose stanno in un modo diverso da come ti aspetti, da come ti ricordi. Sei tu, Medea dal multiforme spirito, dai tanti furori, ad aprire la stagione eccezionale in cui il compito di tenere accesa la luce, nel millenario Teatro Greco di Siracusa, è affidato a sole voci - “Per voci sole” è la scelta dell’Inda, il benemerito Istituto del dramma antico: due eventi e cinque appuntamenti con interpreti “speciali” - nel rapporto impensabile e capovolto tra il pubblico che sta seduto nello spazio del palcoscenico e l’antica cavea che abbraccia l’attore, il musicista, e si fa scena.

Luce: quella che va calando quando si accende il pianoforte di Rita Marcotulli – pianista e compositrice che dal jazz è partita alla conquista di tutti i mondi – e spazza ogni elegia possibile, ma rianima le pietre, chiama la notte, si fa incalzante e anticipa, fitto e percussivo, il dramma di Medea.

È “Da Medea a Medea”, da Euripide e Tarantino, con “cura registica” di Fabrizio Arcuri.

Che poi, si fa presto a dire Medea. Certo c’è quella, gigantesca, di Euripide, ma da lei e contro di lei se ne sono levate cento, mille. Il femminile oscuro e potente, il femminile minaccioso che potrebbe travolgere ogni ragione e ogni pietà, e ogni cosa costruita su pietà e ragione: in ogni Medea scorrono fuoco e furore, e poche eroine sono state tanto indagate e riscritte. È doppia la parola, sempre doppia, e tanto più sul labbro di Medea “la scaltra”, infanticida e assassina, eppure Medea risolutrice, Medea guerriera, Medea che non si rassegna ad alcun destino e agisce.

Nelle parole di Lunetta Savino – vestita di rosso (nell’abito di Paolo Isoni), immersa in una luce rossa che dilaga e ci tinge tutti – la Medea di Euripide evoca il furore originario, quel “difetto” primordiale in agguato (“Io non ho un’indole mite… so di essere una donna tremenda”), quella stella nera. E le sue parole sembrano incrociarsi con quelle sentite, poco prima, nello stesso spazio sacro del parco archeologico (perché per tenere accesa la luce ci vogliono tutte le parole: quelle antiche e risonanti del teatro, quelle luminose dei grandi maestri): il professor Guido Paduano, filologo e traduttore finissimo (primo della lunga serie di lezioni), aveva smontato, pezzo a pezzo, il vecchio luogo comune “necessità versus libertà”, quel dualismo che si suole cercare nell’agire di ogni personaggio tragico. E allora di chi, di cosa è vittima Medea se non di se stessa, e del suo furore congenito? Ma non lo è forse del fedifrago Giasone? Non lo è forse della sua condizione, di ripudiata, di straniera, di femmina?

Prendiamo le tue parti e le perdiamo, povera, immensa Medea. Il pianoforte ci suggerisce la tempesta (e persino tuoni veri brontolano nel cielo alto, perché il cosmo ha una sua ragione che la ragione non comprende, e ogni cosa, come di consueto, ogni voce e suono entra nello spazio magico di quel teatro, così a parte e così dentro la città), la vendetta sembra ragionevole, l’orrore inevitabile. Che trappola, l’amore. Che formidabile esperimento di eteronomia, nelle parole e nei gesti di Medea.

L’Euripide srotolato e ricompattato in monologo da Margherita Rubino semina, come sempre, più dubbi che certezze, ma forse maggiore coraggio ci sarebbe voluto per restituire a entrambi la forza originaria: la Medea di Lunetta Savino, pur molto apprezzata dal pubblico, resta un po’ sotto quella soglia di essere estremo che ci mette alla prova da millenni, e ci abbaglia soltanto nella scena finale, quando vola via sul carro del Sole, con parole di tagliente trionfo, e ci lascia stupefatti sul palco, noi spettatori-protagonisti del mondo rovesciato, che guardiamo negli occhi quelli che eravamo, che siamo stati, che torneremo a essere mentre la maga spietata, femmina estrema, torna nel suo altrove remoto.

Eppure non c’è cesura tra le Medee: che sia progenie del Sole o misera profuga, che sia principessa o prostituta, che sia esiliata in una reggia o detenuta in un campo di sterminio, è sempre lei, la donna assoluta e indecifrabile. L’ “altra Medea” che ci torna in scena (dopo l’uscita, difficilmente comprensibile, della Marcotulli), in zoccoli, calze a rete, stracci e fagotti, è quella di Antonio Tarantino, il drammaturgo morto ad aprile in isolamento, vittima collaterale e testimoniale dell’emergenza pandemia (che dal teatro è continuamente evocata e rimossa: presente in tutte le giuste e corrette procedure, nel fiorire di mascherine, nella voce monotona che illustra le strategie di uscita e dice quella parola, quel sortilegio, “coronavirus”, eppure dissolta non appena la scena torna viva, e la parola risuona e scorre come da millenni, in un tempo chiuso eppure rinnovato). “Cara Medea” s’intitola la sua esplorazione del mito (testo del 2012), che aggancia la storia ma solo come ulteriore scenario dell’imponderabile, dove la ferocia e la pietà s’annodano, come nella tragica figura di Medea, senza nessuna possibilità di bene o di giustizia, senza nessuna redenzione. Non è regina, Medea, sopravvive d’espedienti in un’Europa rovinata e macina ininterrottamente il senso di colpa per l’uccisione dei suoi figli, evocato con crudezza violenta: eppure anche quello non sapresti dire se è stato estremo amore o orrore puro, perché essi sono indistinguibili. E la Storia, non meno del Mito, ci è oscura e non ci può aiutare (“La Storia – aveva detto Tarantino – è come una Sfinge: promette senza mantenere o getta sul piatto delle cose imprevedibili”).

La Savino è più a suo agio con questa Medea derelitta (che parla con un accento pugliese straniante, e davvero non rende giustizia al dolente e crudo linguaggio di Tarantino), che esce di scena rivolgendosi a Giasone, la cui sconfitta è tutta nella vita miserabile di entrambi, e a noi: “Anche se Dio non c’è per nessuno”.

Le divinità silenziose della cavea, del proscenio, delle Latomie annuiscono e sorridono. A loro piace ingannarci così.

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