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A colloquio con la scrittrice Simona Lo Iacono sul suo ultimo romanzo: Marianna, "La tigre di Noto"

Esce dall’ombra la vicenda d’una straordinaria scienziata siciliana che amava la luce (e che fermò la mano dei nazisti)

Da magistrato e scrittrice, formazione classica, tanti interessi e una raffinata sensibilità, Simona Lo Iacono ama ripetere che il romanzo è uno “strumento normativo”. «Perché è dalle storie – dice – che apprendiamo cosa è giusto e cosa ingiusto. Le storie, per il solo fatto di raccontare, stimolano giudizi critici sulla vita, insegnano a leggerla, a viverla con lucidità. Paradossalmente è l’invenzione che aiuta l’uomo a vivere la realtà». E perciò lei, siciliana di Siracusa, sin dal suo romanzo d’esordio “Tu non dici parole” (Giulio Perrone Editore, 2009, Premio Vittorini Opera Prima) all’ultimo, appena uscito, “La tigre di Noto” (Neri Pozza Editore), ama tirare fuori, alla luce, dalle ombre dell’oblio o dei fraintendimenti, personaggi e storie che, tra realtà e invenzione, diventano mondi narrativi nei quali possiamo muoverci ed emozionarci.

Come per la “tigre di Noto”, la scienziata Anna Maria, detta anche Marianna, Ciccone, un’ombra che pretendeva d’imporsi e che la Lo Iacono fa rivivere con la sua storia eccezionale, ingiustamente dimenticata. Nata a Noto nel 1891 da una famiglia benestante, la Ciccone andò via dalla Sicilia per studiare Matematica, unica donna del suo corso, alla Sapienza di Roma, poi passò alla Normale di Pisa, dove conseguì la magistrale in Matematica e in seguito la laurea in Fisica, quindi in Germania, a Darmstadt, dove lavorò con il fisico e chimico ebreo Gehrard Herzberg, Nobel nel 1971. Visse le due guerre, sperimentò, in tempo di persecuzione razziale, il razzismo ordinario verso la donna e per di più studiosa (non fu mai docente ordinario della disciplina d’insegnamento) poi insegnò alla Normale e quindi, dopo una breve parentesi parigina, alla fine della carriera si ritirò a Noto, dove morì nel 1965.
Sostenitrice delle teorie di Einstein, le sue ricerche pionieristiche furono fondamentali sia per la spettrometria, oggetto dei suoi studi, sia nel campo della nascente meccanica quantistica molecolare. Ma il tratto speciale di questa donna appassionata e coraggiosa, attenta e amorevole verso i deboli, innamorata delle stelle e della luce (imparò che «i fotoni scompongono le luminescenze ma anche le parole»), fu il suo accudimento per i libri, «ascoltando la cui voce, si ritrovava a pensare all’infinito», al punto di salvare, nel 1944, i testi ebraici della biblioteca dell’università di Pisa dai nazisti che volevano distruggerli. Ecco, Simona Lo Iacono si è messa in ascolto di questa storia, restituendoci, attraverso il suo sguardo evocativo, lo sguardo di Anna Maria Ciccone, guidandoci alla conoscenza di questo genio della matematica e della fisica.

Una donna, una scienziata, una siciliana, Marianna Ciccone, vissuta in un tempo in cui la condizione femminile era in uno stato di minorità. Come l’ha trovata questa storia?
«Ogni storia trova lo scrittore, ha strade tutte sue, un po’ misteriose, che mettono in comunicazione chi scrive con chi sarà oggetto di scrittura, e quindi credo che Marianna sia venuta a me attraverso una precisa circostanza. Stavo mettendo in scena la commedia “I civitoti in pretura” di Martoglio all’interno della casa di reclusione di Bicocca, dove presto servizio da volontaria, per aiutare i detenuti minori a sanare la ferita del reato attraverso percorsi narrativi e teatrali. E mi coadiuvava un’attrice di Noto, l’avvocato Rina Rossitto, che in quei giorni (era l’inizio del 2019) stava mettendo in scena un monologo che parlava di una donna sconosciuta ma coraggiosissima, Anna Maria Ciccone. Mi lasciò senza parole perché mi disse che tutti la chiamavano “la tigre di Noto”».

Una storia basata su pochi documenti e in parte d’invenzione. In quale modo ha integrato la scarna parte documentaria per tramare il romanzo?
«Sono partita da una ricerca condotta dal dottor Mario Piccolino, neurofisiologo sperimentale, che si era imbattuto casualmente nella vicenda della Ciccone leggendo, nel corso di studi destinati ad altro scopo, una lettera spedita il 7 ottobre 1944 «Alla Sig.na Prof. Marianna Ciccone» dal rettore della Normale. In quella lettera si narrava dell’atto di coraggio di Marianna durante la seconda guerra mondiale quando, rimasta completamente sola all’interno del dipartimento di Fisica della Normale di Pisa, respinse un tentativo dei tedeschi di razziare la biblioteca. Poi, da lì, ho continuato le ricerche in campo storico, e infine ho consultato gli archivi della Normale».

La Ciccone, ormai in età matura, per un anno circa visse a Parigi e poi tornò a Noto. Perché lei ha scelto di “trascurare” questa parte della vita della scienziata, fermandosi soprattutto sugli anni di Pisa e di Darmstadt?
«Non mi interessava scrivere una biografia, ma un romanzo che mettesse in evidenza il mondo interiore di Marianna, la sua vocazione, la sua attrazione verso la luce e il buio, una dimensione che non è solo della materia, ma appartiene a ciascuno di noi. Siamo tutti percorsi dalla medesima ambivalenza, splendore e ombre, che sono in noi, e che spetta a noi districare, tentando sempre di scegliere la parte più luminosa. Quindi ho selezionato i momenti della vita di Marianna più significativi in questo senso».

E quali ombre lei, da narratrice, ha attraversato per salvare la Ciccone dall’oblio, come fa spesso con i suoi personaggi?
«Le ombre del dubbio, il buio della incertezza. Mi sono dibattuta mesi interi per trovare la “voce” di Marianna, per farla emergere e per rispettare la sua memoria, i suoi bagliori, le sue vertiginose intuizioni».

Tanti sono i temi in filigrana: la condizione femminile, la società siciliana, la famiglia, la guerra, la persecuzione razziale, le disuguaglianze.​
«Sì, tutti temi che ci riguardano molto da vicino anche se Marianna nacque alla fine del 1800. Eppure la sua fatica è la nostra, i fraintendimenti che dovette scontare ci appartengono, e ancora nostro è il suo dolore, la sua solitudine».

Maternità e accudimento. Era nella natura della Ciccone che madre, biologicamente parlando, non fu. E, soprattutto, madre amorosa dei libri.
«Sì, perché Marianna è una seguace della luce. E la figlia della luce è la maternità, l’accudimento. Non che sia una strada fatta solo di conquiste o di bellezza. Anzi. La maternità comporta sacrifici e molta rinuncia. Però la luce indica la strada, l’orizzonte, il punto d’arrivo».

Cosa rimane, oggi, a parte il suo meritevole e bel romanzo, di questa donna eccezionale?
«Restano le sue conquiste accademiche, il suo atto di coraggio, l’amore per il senso del dovere. Marianna non si sentiva una eroina, semplicemente eseguiva i compiti che le erano stati affidati, e lo faceva con senso di responsabilità e con grande creatività. Seguì la propria vocazione e tenne fede ai suoi impegni, una condizione che può sembrare semplice, umilissima, e che invece esige forza interiore e grande spirito di abnegazione».

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