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Un amore impossibile tra odori di cucina: "Giuditta e il monsù", il nuovo romanzo della DiQuattro

Costanza DiQuattro

Si sentono uscire tutte, dalle pagine di “Giuditta e il monsù”, le folate di caldo torrido ,“nella ricerca di riparo, bruciavano le ringhiere di ghisa sui balconi e il basolato incandescente del cortile” e si vede Ibla, la città “lenta e ordinata, sonnacchiosa e bella”, impermeabile a ciò che può insidiarla dall’esterno e strapparla all’autosufficienza felice che le assicura la bellezza, “un microcosmo isolato e del tutto sordo nei confronti di eventi e catastrofi contemporanei che giungono come voci ovattate, con un’eco lontana” e si respirano quei profumi inebrianti che avvolgono la cucina di Palazzo Chiaromonte, di stufati, caponate d’inverno, cassate. Sì, la cucina, epicentro del romanzo e teatro in cui si dispiega il tema, quello dell’amore (impossibile), raccontato da Costanza DiQuattro nell’ultimo suo libro, pubblicato da Baldini&Castoldi.

Un’opera intensa e vibrante, ambientata tra il 1884 e il 1915, che si apre e si chiude con uno stesso segno di vita, quello della nascita e della ri-nascita. Un amore puro ma con sentenza inderogabile del destino, è la gemma dura di questa nuova avventura letteraria della scrittrice ragusana, che mostra solida tessitura narrativa, consolidata scioltezza stilistica, (al suo terzo libro, dopo “La mia casa di Montalbano ” e “Donnafugata” presentato a Messina nel 2021 nell’ambito di SettembreLibri) ed una particolare efficacia nei dialoghi, di aura teatrale oltre che narrativa, che rivelano la sua familiarità con le scene (cura, con la sorella Vichy, il teatro Donnafugata) e con la scrittura drammaturgica in cui si è già cimentata con “Barbablù”.

La grande cucina dunque è il luogo dei miracoli, dove Giuditta e Fortunato, protagonisti della storia, crescono guidati dalla maestrìa culinaria di don Nicola, padre adottivo del ragazzo e monsù della nobile famiglia Chiaramonte a cui appartiene la ragazza. I due sono uniti dalla passione per quello spazio alchemico in cui trascorrono tutto il tempo incantati, rapiti e sognanti; un laboratorio di ricette prelibate, ma anche di vita, di sapienza antica. Il grande tavolo di marmo diventa tana per Giuditta e centro affettivo, un posto in cui sperimentare adorate ricette, come la sua prima impanata, “provò una soddisfazione che non aveva mai avvertito”.

Un luogo testimone dei loro cambiamenti, dai giochi e mille avventure, all’amicizia, alla complicità e all’amore; uno spazio di libertà per la piccola monsù, al riparo dalla rigidità delle convenzioni sociali: “Facciamo così io ti porto i compiti del canonico Lo Presti in cucina e tu mi lasci cucinare... entrambi faremo ciò che amiamo e nessuno sospetterà di nulla”. Fortunato, detto Fofò, infatti è interessato ai libri, a “manovrare le parole più dei mestoli”, mentre Giuditta è attratta dalle pentole più che dallo studio. Un luogo in cui nasce un sentimento profondo di gelosia, tenerezza, rossori: “sebbene il loro corpo fosse in subbuglio e per quanto potessero intravvedere i cenni di un cambiamento, rimasero strenuamente legati a loro essere bambini”.

Il perimetro, quello del loro legame :“La cucina restava il loro regno, il luogo dove tutto aveva avuto inizio e dove tutto , continuava, indisturbato, ad avvenire.. regno per un solo re e una sola regina.” Dopo molte resistenze cedono: “Si erano arresi, era il momento di darsi felicità.” Accanto a questo asse, centrale, c’è la famiglia del marchese Romualdo Chiaramonte, spalle larghe, sorriso parsimonioso, “un re dentro quelle mura antiche”; figura monolitica all’inizio, stigmatizzata dall’incipit, efficacissimo, in cui aspetta chiuso nello studio durante l’ennesimo parto della moglie, di sapere il sesso del nascituro, ancora una volta femminile: “tutte femmine, infinitamente femmine, tragicamente femmine!”

Ma la sua figura dura si stempera nell’incedere degli eventi, diventa inquieta, silenziosa :“Chissà quale immenso dolore covava dentro i suoi panciotti di seta .”Accanto a lui, una moglie grigia, la marchesa Ottavia, ansiosa ed emaciata come nella migliore tradizione gattopardesca. “ L’antipatia c’hai tu, ta putissitu vinniri !” esclama il marchese. E ancora il sacerdote precettore, il canonico Egidio Lo Presti e uno stuolo di affezionato personale come Maruzza, Giannina, Concetta, don Memmo utile nell’immenso palazzo di città e nella dimora di campagna, Poggiorosso . E infine le quattro figlie su cui ci aveva visto giusto il precettore: “Amalia studiosa e piena di grazia, Rosalia attratta dalla matematica, Ada religiosa, Giuditta disinteressata ai libri vuole imparare sotto il grande tavolo di marmo e lì guarda e ascolta tutto”. Giuditta è proprio così, indole da maschiaccio, esuberante, innocentemente trasgressiva, curiosa. Tutti i personaggi, sono descritti più che fisicamente, psicologicamente e interiormente.

Fra gli episodi più efficaci, quello del lutto stretto, con i suoi riti e usanze, come il cunsulo o i tempi imposti dalla tradizione; la scena del funerale di un parente, con “corteo afflitto e nero, lento e silenzioso” e quello della sartoria delle signorine Bandiera. Non mancano graffianti e felici i termini ed espressioni gergali che evocano mondi e atmosfere, con colpi di gran camurria, chianciri miseria, Oscenza sabbinirica, u solito scimunitu! Il romanzo si conclude con un fendente inaspettato che farà impennare il destino scritto da altri; un fatto che capovolge e sconquassa la storia, l’ordine, il senso assunto fino ad allora e getterà Giuditta in un abisso di dolore. Ma il dramma della donna non finisce con una resa, ma con un accettazione consapevole della sorte e un gesto di attaccamento ineludibile alla vita.

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