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Diavoli di sabbia, angeli di pioggia. A colloquio con la scrittrice catanese Elvira Seminara

Un “circolo” di dialoghi a due che costruiscono un tessuto di storie, emozioni, sentimenti. In una non-Sicilia piovosa e inquietante

«Chop Suey», dipinto di Edward Hopper (1929)

È sempre lei la più ardimentosa sperimentatrice delle scrittrici siciliane, lei che gioca con la forma del romanzo, esplorandolo, espandendolo, sovvertendolo, trasformandolo. Col catalogo dei cataloghi dell’“Atlante degli abiti smessi”, con le storie parallele e convergenti di “I segreti del giovedì sera”. Adesso Elvira Seminara, scrittrice e giornalista, siciliana (vive ad Acicastello) e cittadina del mondo, anzi dei mondi tutti, immaginari e reali, esce con un altro romanzo ancora più ardito: martedì in libreria approda il suo “Diavoli di sabbia” (Einaudi, come i due precedenti). Una narrazione trasformata in sciame e pulviscolo: quattordici capitoli, ciascuno dei quali è un nudo dialogo tra due personaggi, uno dei quali sarà protagonista del successivo, fino a chiudere il cerchio coi primi due, Iris e Rodolfo, che ritornano. Una struttura che potrebbe richiamare il raffinato “Girotondo” di Arthur Schnitzler, se non fosse che questo è un romanzo e non un’opera teatrale, e che di tradizionale non ha proprio nulla: i personaggi della Seminara – narratrice in incognito, (d)io narrante che elimina se stesso ma solo per essere ovunque, il più onnisciente dei narratori – non si scambiano se non ossessioni e narcisismi, e più che a Schnitzler fanno pensare a Hopper, alle sue nitide solitudini.
«Da tempo – mi dice Elvira Seminara – lavoro sulla forma-romanzo, alla ricerca di strutture nuove e più adeguate a raccontare il contemporaneo. “Atlante degli abiti smessi” è un romanzo in forma di catalogo che mette insieme, nella stessa storia, tutte le possibili forme narrative: il diario, l'elenco, la poesia, il dialogo. Cui si aggiunge a conclusione un secondo io narrante. Nei “Segreti del giovedì sera” ho collocato l'io narrante autobiografico in mezzo alla storia, per fare da sostanza reagente tra i personaggi, e farli esplodere. Ma mi costituisco, ho il mio nome. È una forma di docufiction che mi piace molto, e penso a Rachel Cusk, ad Annie Ernaux. Dove l'analisi critica del presente può salvarci , forse, dal narcisismo e dalla scrittura autoreferenziale».
E dunque dialoghi nudi siano, sebbene capaci d’improvviso di gonfiarsi in descrizioni (la foresta dei suoni nel capitolo 6) o elenchi magistrali (la «vertigine della lista» è un marchio di fabbrica della Seminara) o perfette metafore (i giorni felici come «mucchietti di sabbia d’oro», il «difetto delle vetrate: ti specchiano mentre guardi fuori. E cerchi il mondo, invece»). Una scrittura sempre ricca e spiazzante, piena – per prendere a prestito le sue stesse parole – «di spazio, di grazia, di rispetto». E di autentica pietas, non disprezzo, per la confusione dei contemporanei, il loro interminabile giro di giostra a vuoto.
C’è un dolore, in questa incapacità dei personaggi d’uscire dalle proprie traiettorie egocentriche. E questa struttura, allora, più che all’armonia d’un girotondo fa pensare davvero ai “diavoli di sabbia”, quel singolare fenomeno atmosferico, vortici improvvisi di polvere e sabbia che s’alzano all’improvviso, senza rapporto col resto, nel deserto. Perché il vero oggetto dell’analisi acuta dell’autrice, la prima materia del suo cercare e sperimentare, prima ancora della struttura-romanzo, è la relazione. Il mondo delle relazioni, oggi navigabile nei molti modi che la tecnologia ci offre, eppure sempre riconducibile alle sue determinanti fondamentali, e alla cosa umana più immediata: il dialogo a voce, faccia a faccia. Un mondo affidato ai soli dialoghi tra i personaggi, che si svolgono in case e negozi, alberghi e automobili, luoghi e non-luoghi. Le storie, pur così frammentate e pulviscolari, s’intrecciano, s’intersecano, perché le nostre vite sono tutte interdipendenti (e il dio narrante lo sa): e allora le vicende d’una bizzarra situazione di coppia, di un’aggressione violenta, d’un suicidio rimbalzano da un dialogo all’altro, si trasformano, si capovolgono, ricominciano. Anche se, invece che plurale e interconnesso, sembra per lo più un mondo ossessivo e autocentrato, dove tutti sembrano soprattutto soli, e in cerca d’ascolto. Dove l’amore diventa «un dolore siamese: indistinguibile, autoalimentato». Dove persino i nomi possono essere fraintesi, storpiati: Alga che diventa Olga, Manlio che diventa Mario. E un errore ne genera un altro, perché il tempo della relazione è curvo, come lo spazio.
«Se il tempo e lo spazio sono curvi, come dice la fisica dei quanti – dice Seminara – , anche le nostre vite sono curve. E tutte intersecate. Mi piaceva l'idea di raccontare una storia che si unisce alla successiva producendo altre storie, anelli su anelli, mobili e infiniti. Anche la nostra vita si muove così, fra le altre. A volte producendo attrito, guasti. Ed altre musica, come le sfere dell'universo... Mi interessano le conversazioni, sui social come al pub o in ospedale, piene di dubbi e presunzione, di falsità e disperazione, di tenerezza e ferocia, dove forse l'unica domanda è quella di essere amati».
Essere amati, ma amarsi anche troppo, concentrati su di sé e poco disposti a guardare gli altri.
«Sì, il narcisismo è la nostra app automatica di consolazione e risarcimento. L'amore di noi stessi è la risorsa vitale più riproducibile ed economica rimasta al mondo...».
E che mondo. Un mondo limaccioso e minaccioso, ma anche minacciato, un mondo di pioggia incessante che ricorda il futuro deteriorato di Blade Runner. E se tutto si svolge a Catania, è una Sicilia – come già nel romanzo precedente – ben poco consueta. Un mondo più notturno che solare, più umido che splendente, più inquietante che protettivo. E siamo decisamente sulle soglie della pandemia, che è percepita come un problema ancora remoto, un remoto morbo cinese di cui non si sa bene cosa pensare, ma che aggiunge una nuvola al cielo già plumbeo, un’inquietudine alle altre.
«È una non-Sicilia. Qui afflitta da una pioggia terrosa e obnubilante in stile Black mirror, da vigilia continua e persistente. È la vigilia euforica del disastro, forse della pandemia. È un sentimento vischioso di allerta che ci accomuna tutti, secondo me. Tra onnipotenza di reazione e nevrosi di risulta, isolamento o odio compulsivo. Beh. Non è un buon momento per noi umani».
Non è un buon momento e ce lo meritiamo, forse: «La vera epidemia è la nostra confusione», dice una dei personaggi. E siamo noi a costringerci in «architetture d’inferni», a offendere il pianeta (alcuni personaggi nutrono preoccupazioni ecologiche molto documentate, ma che pure difettano di sincerità e altruismo). «Arrestare, raffreddare, contenere», la scritta della centrale di Fukushima campeggia sulla parete della casa di Sonia, nel capitolo 7: diventa un monito etico, e probabilmente non serve allo stesso modo. Nulla appare sicuro, men che meno il futuro.
«In questo spazio invaso e pericolante – ammette Seminara – nemmeno la casa è uno spazio sicuro : è pericolosa o inospitale, può diventare carcere o scena di un suicidio o spazio asettico svuotato dai ricordi. Mentre i luoghi più sicuri e accoglienti risultano l'albergo, un panificio e il negozio di scarpe».
Infine la domanda non può che essere una: Elvira, qual è il tuo personaggio preferito? «Manlio. Bello e ombroso, fragile e severo, che diventa Mario per banalizzazione ma è il motore inconsapevole della storia».

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