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Catalano lascia il segno con il conte di Racalmuto, tra Manzoni e Sciascia

Vito Catalano, palermitano, gli ultimi quindici anni vissuti tra Polonia e Italia, nipote di Leonardo Sciascia, predilige le atmosfere del Seicento, «secolo sudicio e sfarzoso», tempo di inquisitori, di tiranniche contee e di sanguinari signori pur nella lontana provincia siciliana, e narrativamente interessantissimo, per il suo quinto romanzo “Il conte di Racalmuto” (Vallecchi), in cui “trae di mano” (per usare un’espressione di Sciascia in “Morte dell’inquisitore”) personaggi e vicende della storia siciliana di Racalmuto di cui il celebre nonno «è andato tentando una specie di recupero non esitando a confessare il suo debito con William Galt, nome romanzesco dello storico Luigi Natoli» (così Sciascia). E lo stesso Catalano a sua volta nella nota in calce al romanzo confessa con orgoglio il debito narrativo con “Le parrocchie di Regalpetra” e con “Morte dell’inquisitore” di Sciascia, stimolato, inoltre, «dal racconto della vicenda dalla voce di Nicolò Patito, amico di mio nonno».
Una vicenda reale e romanzesca, tramandata ancora oggi nei cunti racalmutesi e che pare fatta apposta per essere ri-raccontata, come fa Catalano, cresciuto tra i libri e le parole del nonno, in questo breve romanzo che sciascianamente e manzonianamente inizia con una data, il 6 aprile del 1622, quando a Racalmuto il pittore Pietro D’Asaro (un artista di rilievo nella storia della pittura del XVII secolo in Sicilia, e alla cui riscoperta contribuì proprio Sciascia nella grande mostra del 1984), «spregiudicato e donnaiuolo, chiamato l’orbo di Racalmuto, amante della buona tavola, beffardo e arguto, viaggiatore» (così Sciascia in “Morte dell’inquisitore”), viene convocato per un ritratto dalla contessa Beatrice, giovane moglie del conte Girolamo II del Carretto, il cui sarcofago si trova tuttora nella chiesa della Madonna del Carmelo di Racalmuto. E da Pietro D’Asaro, da Beatrice, da Girolamo del Carretto, dal priore del convento degli agostiniani e dal servo Antonio Di Vita muove Catalano per farne i personaggi romanzeschi di una storia che sembra farsi da sé.
Da quel 6 aprile 1622 al 6 maggio 1622, giorno in cui il conte, «affacciato al balcone più alto fra le due torri del castello che domina le povere case ammucchiate», viene ucciso da Antonio Di Vita con un colpo d’arma da fuoco, scorre un mese in cui Catalano immagina una storia fosca che deve pure a Dumas (tra gli autori amati dallo scrittore) atmosfere e movenze, con suggestivi scorci di paesaggi selvaggi funzionali a una trama che mescola fantasie con fatti reali.
Cosa c’era dietro il delitto di quel signore, esempio di ingiusta autorità che affamava i poveri abitanti della contea (Racalmuto vi era stata elevata nel 1576 dall’Escuriale stesso) con tasse, balzelli, pratica dell’usura e violenze di ogni genere, e la cui morte era sicuramente voluta da tutto il paese? E perché, come si racconta, la vedova contessa Beatrice salvò il servo Di Vita, dicendo davanti a tutti che «La morte di un servo non riporta in vita il padrone»? Tra prepotenze, soverchierie del potere nei confronti dei deboli e il trionfo del disordine sulla ragione, il fascino della narrazione testimonia, ancora una volta, la presenza del Male nella Storia, in una rete di inganni e tradimenti, gli stessi di cui è intessuta la vicenda umana.

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