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Sciascia e Pasolini, fraterni e lontani. Una due giorni di studi a Racalmuto

Il loro rapporto e la generazione dei grandi Maestri (1921-25), da Calvino a Macaluso, da don Milani a Basaglia

A Racalmuto, di mattina, sale la nebbia sulla strada tante volte percorsa da Leonardo Sciascia, la cui statua in bronzo è lì, nella postura a lui solita. La nebbia che sicuramente vedeva anche lui, e non solo come un ovattato fenomeno atmosferico che impedisce la vista. Ma poi, all’«aria cruda e umida e bagnata» (la stessa del Friuli pasoliniano di “Il sogno di una cosa”) succede una luce di azzurro che illumina i ragazzini di Racalmuto, in piazza a giocare gioiosi alla presenza numinosa del maestro Sciascia.

Gli stessi che a un’ora tarda della sera precedente, curiosi e attenti, ci avevano soccorso per un’informazione. E che, quando abbiamo chiesto come mai fossero soli, ci hanno risposto «Ma qui siamo a Racalmuto». Sì, a Racalmuto a sentir parlare di maestri, nel bel convegno “Cent’anni di solitudine: la generazione (1921-1925) di Sciascia e Pasolini”, organizzato da Antonio Di Grado, italianista e critico letterario, con gli amici della Fondazione Leonardo Sciascia, di cui è direttore scientifico.

Convegno denso di tante sollecitazioni e future prospettive, al quale sarebbe stato bello partecipassero quei ragazzi, loro, «il sogno di una cosa, quello che il mondo ha da lungo tempo» (Pasolini), cui indirizzare la parola di tanti sciamani della parola, tutti nati nello stesso felice quinquennio degli anni Venti del ‘900. Sciascia (1921) e Pasolini (1922), il cui sodalizio è attestato dal commovente carteggio tra i due, durato più di un decennio, insieme allo scambio di libri, di recensioni reciproche, di idee, carteggio donato dalla famiglia Sciascia alla Fondazione e in mostra per la prima volta con la curatela di Edith Cutaia e di Vito Catalano, nipote di Sciascia.

Due dioscuri, Sciascia e Pasolini, al centro della riflessione letterario-storico-politica di Di Grado e Fernando Gioviale, già ordinario di Storia dello spettacolo all’Università di Catania: una «generazione “divisa”, tra dedizione iniziatica alla letteratura e impegno politico con il richiamo della sinistra» (Di Grado). «Intellettuali disturbanti, eretici, corsari e luterani nella militanza praticata sin dalla giovinezza – nelle parole di Gioviale (“Felice chi è diverso? Sciascia e Pasolini, fraterni e lontani”) –, un’”antropologia in via d’estinzione” a fecondare la realtà, irripetibili al punto che più della loro stessa scomparsa ci sarebbe da compiangere sulla scomparsa dei loro tempi».

E intorno ad essi in forma di ekphrasis sono stati disposti Italo Calvino (1923), dall’italianista Marina Paino (“Quel dialogo a distanza tra Calvino e Sciascia”), con un suggestiva analisi del gioco di specchi e del duraturo scambio intellettuale tra i due per un quarto di secolo; Emanuele Macaluso (1924) che Leandra D’Antone, già ordinaria di Storia contemporanea alla Sapienza (“Emanuele Macaluso comunista con Sciascia nella Sicilia dell’energia”) ha collocato in una temperie storico-politica in cui cultura e politica erano strettamente legate, di contro alla deriva attuale.

E la maieutica come adattamento all’altro, come architettura della giustizia sociale, di Danilo Dolci (1924), «intellettuale eccedente, di un’eccedenza progettuale», applicata concretamente alla realtà nel villaggio di pescatori Borgo di Dio di Trappeto (Palermo), tracciata da Stefania Mazzone, docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Catania (“Ciascuno cresce solo se sognato”: Danilo Dolci). Lo scandalo come strumento di denuncia, come stigma di coscienza civile, di Lorenzo Milani (1923) e Franco Basaglia (1924), il primo, apprezzato da Pasolini, che vide «nell’opus rhetoricum di don Milani un uso della parola che scuote e persuade», raccontato da Sebastiano Vecchio, ordinario di Filosofia e Teoria dei linguaggi all’Università di Catania (“Il classico Lorenzo Milani: scrittura e rancura”); il secondo, riformatore della disciplina psichiatrica in Italia, con l’urgenza di fare il bene e la lotta per far emergere i nuovi bisogni del paziente e ribaltare le prospettive, far capire che è la società a mancare della capacità di riflettere, nel percorso dello psicanalista catanese Giuseppe Raniolo (“Il dono della speranza. Sull’eredità di Franco Basaglia”).

Conosceva bene la parola che scuote, Goliarda Sapienza (1924), «bruciante paradigma della crisi del secolo, il corpo come teatro delle lotte e dei dilemmi», restituitaci, tra le lacerazioni e i dissidi della sua generazione, nella bella lezione della scrittrice Elvira Seminara (“L’arte del caos: Goliarda Sapienza”). E da Goliarda al misticismo della poetessa, scrittrice, traduttrice Cristina Campo (1923), amica di Luzi, di María Zambrano, di Elémire Zolla, ma appartata all’insegna della “sprezzatura” e della religione, vissuta come «un destino santificato», nel contributo di Arianna Rotondo, studiosa di Storia del cristianesimo (“Bellezza, Grazia, Mistero: le ‘liturgie’ di Cristina Campo). Un «eretico consacrato» Angelo Maria Ripellino (1923), slavista e critico teatralesecondo l’italianista Maria Panetta (“Ripellino all”Espresso: cronache teatrali degli anni Settanta”), un grande intellettuale con il suo «lessico caleidoscopico» nelle recensioni-mondo per l’Espresso. E Mario Pomilio (1921) che ha dato spunto a Di Grado (“Mario Pomilio: un cruciverba partenopeo”) di studiare il doppio binario di due vite parallele e intrecciate nello scambio intellettuale, quella di Pomilio e di Sciascia.

Enrico Berlinguer (1922) ha connotato un’epoca di sogni e contraddizioni nella lezione di Giuseppe Astuto, ordinario di Storia delle istituzioni politiche all’Università di Catania (“Berlinguer e l’Europa: una sfida ancora aperta”) mentre Sebastiano Addamo (1925), è stato il caro sodale di Sciascia e con lui in continuo confronto, nel contributo dell’italianista Dario Stazzone (“I ‘diverbia’ di Addamo in dialogo con Sciascia). E a concludere l’affresco, Fabrizio Catalano, autore e regista, nipote di Leonardo Sciascia, con “Damiano Damiani: l’essenza della libertà creativa”: Damiani (1922), che con il suo “Giorno della civetta”, iniziando a codificare un genere, diventò uno dei registi più engagé.

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