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L’artista (musicista, attore, interprete...) siciliano Incudine: incredibile, inarrestabile

Il singolo “Selfie in lockdown” per prendere in giro tic e tabù degli italiani, con un torrente di parole che più che all’hip hop si allacciano... al cuntu

Sdrucciolo. Che è il modo delle parole d’essere travolgenti. Possibile e impossibile, potabile, bevibile, credibile: ci sono tutti gli aggettivi del mondo, e tutti con lo stesso accento precipitoso nell'ultimo brano del più sdrucciolo e travolgente degli artisti siciliani.
«Ti rendi conto che anche il tuo nome è sdrucciolo, e suona come una specie di destino?» chiedo a Mario Incudine, e ridiamo assieme del destino di noi sdruccioli (pure io lo sono), duro destino in un mondo di parole piane. Piane come divano, lontano, depresso. Come chiuso, bloccato, inespresso. Triste, come potrebbe essere un artista in cattività ormai da troppi mesi. Potrebbe, se non fosse Mario Incudine, che s'è inventato l'ennesimo modo per ribaltare in musica e in creatività persino i duri tempi del silenzio e del vuoto.

S'intitola “Selfie in lockdown” (Borsi Records/The Orchard) il singolo appena uscito, ed è una parodia fino dal titolo: un finto rap che prende in giro (con tenerezza) macchiette, ossessioni e manie di noi italiani in lockdown, tra pigiama e pc, tentazioni di fuga, gatti al guinzaglio e trasgressioni da tinello. Ma attenzione: per quanto giochi con le parole e una musica leggerissima, dentro ci sono sempre l'enorme sapienza antica e la prosodia del cantastorie, la metrica non dell'hip hop ma del cuntu, l'armonia non del pop ma della serenata, la tradizione della parola forgiata e incatenata e incantata che va indietro di un bel po' di secoli e che il serio studioso Incudine non smette di indagare, al servizio del giocoso artista Incudine.

«È rarissimo – dice – che io scriva in italiano: si deve sentire dentro la grecità, deve avere la stessa credibilità di quanto canto in siciliano. È come se io recitassi mentre canto: ogni sillaba deve avere quantità, peso, e la strofa fluidità. Volevo cantare in italiano e arrivare in siciliano».

E persino usare le parole tabù, gli orrendi inglesismi che s’appiccicano ovunque: le parole che chiudono la canzone, e danno il titolo, sono «shock in my town, selfie in lockdown» (e un “bravo” a chi indovina la citazione...). Ma ti arrivano “tra virgolette”, e ne apprezzi la natura di parodia...
«Se io avessi usato un movimento strofico hip hop o pop non sarei stato credibile: la prosodia profonda è un'altra».

Quello che nel rap chiamano “flow”.
«Il flusso... è un altro. E questo flusso è tornato a scorrere, per la prima volta in italiano, nel nuovo album, il primo di inediti dopo dieci anni, ora in pre-produzione».

È arrivato il tempo (che poi nella prosodia è tutto)?
«È tempo per due ragioni: il 2 giugno compio 40 anni, e voglio fare un bilancio attraverso le canzoni, ma soprattutto sono arrivate le storie da raccontare. È una summa, ma anche una sperimentazione, la voglia di utilizzare di nuovo la forma della canzone per raccontarmi, dentro questo nuovo cantautorato poetico. Dodici tracce molto autobiografiche e intime, per la prima volta in italiano, ma con incursioni in dialetto: dove l'italiano non arriva nasce l'urlo siciliano...».

Il siciliano è sempre la premessa intima, il paesaggio di accenti interiore, antico come l'infanzia («la mamma come ti rimproverava? Con quale lingua?»), ma anche elaborato e lungamente studiato («la lingua si fa suono, la terra ribolle sempre, e c'è un momento in cui esplode»).
È lavico e sismico (ancora aggettivi sdruccioli) Mario Incudine. Standogli vicino e sentendolo parlare e cantare verrebbe voglia di misurargli la febbre, ma non coi termoscan a distanza di adesso: mettergli la mano sulla fronte, come si faceva da piccoli. E constatare che la sua temperatura artistica è sempre altissima, rovente.

Come hai fatto durante il lockdown per non impazzire?
«Sono impazzito, infatti. Ho scritto, studiato, letto, ripreso cose, rivisto, riscritto. E poi ho buttato tutto: era per capire cosa non dovevo fare. Come disse il filosofo: diffido dei pensieri che non nascono all'aria aperta».

E infatti il suo protagonista di “Selfie in Lockdown”, nel divertente video (scritto da Costanza Di Quattro, girato da Ivan D'Ignoti) che uscirà il 5 maggio, è chiuso per finta... all'aperto. Dietro una porta che non chiude in una stanza senza muri, con attorno l'abbagliante bellezza del barocco di Ragusa Ibla. «La bellezza, che lì è una quinta, c'è sempre. Anche se non la vediamo».
Anzi, la contaminiamo con cose assurde: «Ciclisti nelle pendenze di Enna, cinofili improvvisati, cantanti da balcone, monopattini...». Tipi e macchiette che fanno sorridere, i protagonisti dei mille “selfie in lockdown”, e che Mario Incudine – che è anche attore e interprete – impersona impavido, prendendosi e prendendoli in giro ma senza perdere la tenerezza («Sono uno e centomila, ma mai nessuno»). Perché sotto la pelle della più accattivante delle canzoni – e a questa auguriamo una lunga vita in radio e nella prossima estate – c’è sempre l'appassionato lettore di Pirandello e Jacopo da Lentini, collezionista di suoni, espressioni, umanità. «E poi si sa – aggiunge – : il disco è una fotografia, ma ogni volta che lo esegui in pubblico ha una trasformazione genetica, è un Ogm artistico che cambia, cresce, diventa altro».

E arriviamo alle dolenti note, anzi alle note zittite: la lunga pausa dei teatri, i palcoscenici vuoti.
«È stata una cattiveria. Se apri aeroporti, trasporti pubblici, perché non i teatri? E allora le chiese? Non è forse un rito, con un officiante, allo stesso modo? Noi artisti avremmo accettato qualsiasi limitazione, anche di fare due, tra spettacoli con un solo cachet, per offrire diverse fasce orarie. Per dare un segnale. Significa che in questo Paese forse la Cultura non serve, non ha peso. Abbiamo sofferto, noi artisti, non solo economicamente, ma psicologicamente, mentalmente: senti la mancanza di quello che ti tiene in vita, il rapporto col pubblico. Adesso molta gente non tornerà più a fare questo lavoro, ci sono compagnie e teatri che non riapriranno. Si conteranno morti e feriti. Ora ci attende un lavoro pazzesco: riaffezionare il pubblico, farlo ritornare».

Credi che tutto lo streaming di questi mesi sparirà? O, come è stato detto, che il futuro dello spettacolo sarà “ibrido”?
«Lo streaming deve servire come archivio. Bellissimo archivio, ma devo poter vedere gli spettacoli dal vivo. Lo scambio di energia, di fiati, di presenze non è possibile altrimenti. Anche se questa cosa ci ha cambiato la prospettiva, e la produzione degli spettacoli: ora si parla già di documentazione in video, si concepisce uno spettacolo già in questa chiave».

E viene da pensare a Mario Incudine in scena, il musicista e cantore e interprete che il palcoscenico lo deve scalare, percorrere, frugare e magari costruire tutto da solo, e poi battere col piede per sentire che suono abbiano le assi, e trovarci una nota, e farci una canzone. Perché lo spettacolo si fa con il corpo, si costruisce come un marchingegno.
«Io da sempre ho sostenuto che il pubblico dovrebbe venire alle prove, vedere il travaglio, la fatica, l'atto maieutico nel suo farsi, prima del prodotto finito».

Tornano alla mente il suo cantastorie nelle “Supplici” del Teatro greco di Siracusa, il suo Ulisse che ferma i mari con gli accenti del cuntu, il suo Mimì Modugno che spreme la musica dall'aria, il suo Barbablù spietato (e quanto è costata, quella spietatezza in scena, al suo animo gentile da trovatore). Ora – oltre all'album – si aggiungeranno altre cose, altri suoni, altri accenti: «Il mio è un moto perpetuo, non so se è horror vacui. Forse cerco il mio centro di gravità permanente».
Lo vorresti?
«Non lo so. Magari lo trovo, e poi non mi piace».

Ora ci saranno il “Cavaliere Sole” di Franco Scaldati al Biondo di Palermo, e a luglio “Bengala Palermo”, che mette assieme la cultura bangla e la Sicilia, nella città dell’accoglienza. E Dante, il 15 maggio a Noto, nel “Dolce Stil Noto” con Carlo Muratori, e il 23 luglio al Ravenna Festival. «Ho messo le terzine della Divina Commedia sui binari del cuntu, della chanson de geste, e funziona!», esulta Mimì-Ulisse-Liolà-Barbablù, e si lancia in un piccolo cuntu privato, in magnifico volgare siculo, in cui brillano le parole «nutricamento» e «desio» e «l'amor che regna tra la gente». Inarrestabile (altro aggettivo sdrucciolo).
Dacci una parola per questi tempi che vengono.
«Innesto. Innestare il frutto nuovo sull'albero malato per recuperarlo, farlo rifiorire e fruttificare».
Hai appena descritto il tuo lavoro, sai? Due ultimi aggettivi, allora, sdruccioli: innestabile, fruttifero.

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