Domenica 28 Aprile 2024

Il popolo di invisibili nel buco nero del Partito democratico

Matteo Renzi

Siamo il Paese del “dopo”. Ci accorgiamo che un ponte era tremolante quando crolla, che un fenomeno sociale era pericoloso solo quando degenera, che una montagna frana perché sventrata dall’abusivismo, che Craxi era un gigante e gli epigoni di oggi “nani e ballerine”, che i magistrati italiani non sono tutti degni eredi di Falcone, Borsellino e Livatino. Beninteso, sempre dopo, quando la corrente cambia direzione. Perché, prima, la riflessione dissonante è solo un’eresia da scorticare, un corpo estraneo da emarginare. La maggioranza è più comoda, non richiede sforzi di pensiero ma adesioni a uno slogan, a una parola d’ordine, a un mediocre ignorante che può dispensare mance di potere in cambio di ossequiose complicità. La maggioranza sta – cantava De Andrè – "come un’anestesia, come un’abitudine, come una malattia". E oggi rischiamo di essere tutti maggioranza, un mare senza crespe, un dibattito senza opinioni. "La libertà non è star sopra un albero – ammoniva Giorgio Gaber - libertà non è neanche il volo di un moscone, libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione". Ecco il punto: qual è il nutriente che fa da leva alla crisi di governo nel momento storico più drammatico del dopoguerra? In principio fu Renzi il “rottamatore” a spianare la strada al populismo, prosciugando gli ultimi pozzi della partecipazione, esasperando quella forma di leaderismo sostenuta da una corte di impalpabili comparse. Un’infezione nel corpo già debilitato della sinistra, diagnosticata dalla lungimiranza di Emanuele Macaluso: "Rimpiango – disse in un’intervista - le sedi di confronto e di lotta politica che erano i partiti. Oggi non esistono luoghi dove si discute, si svolta, si dissente, si formano opinioni. Una volta la direzione del Pci era di 21 membri. Tutti avevano diritto alla parola. Adesso sono quasi 300, con un esecutivo di 70 persone. Due o tre persone dicono una cosa, poi si chiude e arrivederci e grazie". Non era nostalgismo, ma consapevolezza di uno sguardo che nel 2003 anticipava il renzismo e il suo “Ciaone”, la politica chiusa sull’attico del palazzo. E non è un vagheggiare il passato, perché quel rimpianto è ancora oggi il buco nero del Partito democratico, incapace di riannodare - con formule di moderna partecipazione – le corde sfibrate del rapporto con il suo popolo di invisibili, sempre più spettatori passivi e smarriti. Renzi si è incuneato in un vuoto che continua ad allargarsi, mentre sull’attico i notabili del Pd giocano a battaglia navale.

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