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L'attrice palermitana Isabella Ragonese protagonista nella fiction “La guerra è finita”

Isabella Ragonese

Da domani su Rai1 (ore 21.25) pagine crudeli della nostra storia rivivono ne “La guerra è finita”, serie in quattro puntate di Rai-Palomar, scritta da Sandro Petraglia con la regia di Michele Soavi. Si racconta l'Italia della Liberazione da una prospettiva inedita: quella di bambini, ragazzi e adolescenti sopravvissuti ai campi di sterminio, orfani o alla ricerca delle proprie famiglie. Le loro storie si intrecciano col vissuto degli adulti che se ne prendono cura in una tenuta agricola abbandonata: l'ingegnere Davide (Michele Riondino), l'ex ufficiale della Brigata Ebraica Ben (Valerio Binasco) e Giulia, pedagogista.

Ad interpretarla l'attrice palermitana Isabella Ragonese, vista recentemente nel film “Mio fratello rincorre i dinosauri”. «Giulia è un personaggio che mi ha colpito già dalla lettura del copione - ci ha detto - perché è un'outsider. Non ha vissuto in prima persona la guerra ed è stata in Svizzera per studiare psicologia, materia sconosciuta nell'Italia di allora. È una donna della sua epoca, ma anche fuori dal tempo, coraggiosa e concreta nell'agire, determinata a mettere in pratica ciò che ha imparato sui libri, ossia far superare i traumi attraverso il loro racconto. Giulia riesce con grande fatica a conquistare la fiducia di questi giovani sopravvissuti, ed entrare nel loro mondo di incubi».

La fiction si basa su vicende vere. Anche il tuo personaggio è reale?
«Si parte da una storia vera, perché è esistita una comunità che si occupava di dare un futuro a questi ragazzi, molti senza più famiglia o troppo piccoli per ricordarsela. Ma si è voluto fare un affresco del periodo mettendo dentro tante storie ispirate a vicende reali e mescolandole tra loro. Non sappiamo se Giulia sia realmente esistita, ma è un personaggio che rappresenta le tante donne che si sono prese cura di questi bambini. Nella serie c'è infatti la volontà di raccontare la Storia con la S maiuscola, attraverso le piccole storie degli esseri umani che si trovavano in quella situazione».

Si racconta di adolescenti e bambini sopravvissuti a un orrore indicibile. Come vivono i ragazzi esperienze così drammatiche, rispetto a un adulto?
«Sicuramente di fronte a un trauma così grande, ancora oggi c'è difficoltà a comprendere fino in fondo; soprattutto perché è un male gratuito, inflitto senza senso, ma che può segnare una vita. Dall'altra parte credo che il nostro film racconti come la vita sia più forte, ricordando una generazione che nonostante questo tragico vissuto ha ricostruito dalle macerie un Paese; uomini e donne che si sono rimboccati le maniche e hanno detto ”andiamo avanti”.

E lo hanno fatto ognuno a suo modo, come si vede nel film. Giulia sostenendo che non si può andare avanti senza fare i conti col proprio passato; e Ben tentando di far dimenticare ai bambini ciò che è accaduto. Ma il passato ritorna, dimostrando l'ineludibilità del rapporto con la Storia, che tutti in generale siamo chiamati a vivere. Il dopoguerra è stato un laboratorio in cui persone di estrazioni sociali e idee politiche diverse hanno messo più in evidenza i loro punti di contatto, accantonando certe divergenze a favore di un bene primario, che era quello di ricostruire il tessuto sociale».

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