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I ricordi di Sasà Sullo: "A Messina grandi emozioni, che gioia vincere a San Siro"

Quasi sette anni, due promozioni, una leadership in discussa in campo e nello spogliatoio. Un punto di riferimento in un Messina che scalava le categoria fino ad arrivare alla Serie A. Sasà Sullo non è stato solo un pilastro di quella squadra “aliottiana” nell'anima poi portata ai suoi massimi storici dai Franza.

È stato un calciatore forte, intelligente, prolifico (31 gol in 168 presenze, ndr), uno che ti leggeva la partita prima degli altri, perché tecnico lo era quando ancora indossava le scarpe bullonate. E lo dimostrò una sera, a tavola, ai tempi della C1, muovendo i bicchieri come fossero giocatori. Era abile ad inserirsi perché Sasà intuiva l'azione prima degli altri, ma anche capace di sparire dalla partita: «A volte discontinuo. Ero indolente in campo. E quando dagli spalti qualcuno mi gridava di correre di più, io stavo fermo per farlo apposta... Ma non mi sono mai assentato nelle gare che contavano».

Per sempre sarà l'uomo del rigore al Catania, il simbolo di una promozione maledettamente sfumata ad Avellino e poi acchiappata ai playoff. L'ex capitano è stato ospite, ieri pomeriggio, della videochat della Gazzetta: «Messina è stata il centro della mia vita da calciatore per quello che ho vinto e che ho anche perso, per l'atmosfera che ho respirato in quegli anni. Le promozioni, la voglia di vincere anche nello stadio nuovo, l'impresa di San Siro, un vissuto che mi ha lasciato il segno per sempre».

Oggi cosa fa Sasà Sullo?

«Sono ad Avellino, a casa. La mia giornata è uguale a quella di milioni di italiani - dice il... “41” per sempre - ma non sarebbe cambiata di molto se non ci fosse stato il coronavirus. Sono un allenatore inoccupato, essendosi conclusa in anticipo la mia esperienza al Padova. Mi manca girare per i campi ad aggiornarmi guardando partite. Per il resto mi godo la famiglia».

Gennaio 2001. Sullo lascia Pescara e la B per rimettersi in gioco a Messina. Saranno sei stagioni e mezza in una piazza che ti adorerà così tanto da regalarti la cittadinanza onoraria, una maglia ritirata (la n°41), uno murales a Mili e… una “piazza” a Roccalumera.

«Sono arrivato con un obiettivo chiaro: vincere il campionato e aprire un percorso vincente. Così è stato. Ma è stata dura. Perché il Messina non era la squadra più forte. Palermo e Catania ci erano superiori. Poi c'erano Ascoli e Savoia. Concorrenza spietata, ma noi avevamo il gruppo. Una qualità che ci ha fatto superare i momenti più bui».

Il maledetto bivio di Avellino: quel giorno il Messina prende una strada più tortuosa per raggiungere la B...

«Si potrebbe scrivere un libro solo per quella partita. La frana, il gemellaggio tra le tifoserie, l'Avellino pieno di palermitani, il rigore sbagliato da Torino. Una classica partita da "sliding doors": se Vittorio non avesse sbagliato dal dischetto io non sarei diventato l'idolo della città per il penalty al Catania e un ragazzo non sarebbe entrato in coma prima di perdere la vita».

La B ti ha regalato gol, conferme e anche qualche fischio.

Tra gol e assist ho sempre pensato di essere importante nella squadra. Anche quando mi pioveva qualche fischio dagli spalti. Ho sempre saputo i miei difetti, mi bastava avere la stima del presidente, del tecnico e dei compagni. Ho sempre convissuto con le critiche, non le ho mai sofferte. Giocavo per la squadra, per il risultato del collettivo, e mai per il personalismo».

E quello “spareggio” col Cittadella. Nel prepartita colpi proibiti negli spogliatoi. E poi la tripletta di un inatteso bomber…

«Al mattino, al momento della colazione, Arrigoni mi confidò di non aver chiuso occhio. Gli dissi: “Tranquillo mister, ti faccio un gol oggi…”. Mi rispose: “Non ne basta uno, devi farne due”. Chiusi così: “Ok, allora ne faccio tre…”. L'indomani Aliotta mi convocò nella sua gioielleria. Mi ringraziò per i tre gol facendo un regalo alla mia signora».

E salvezza fu. Con Arrigoni.

«L'allenatore con il quale ho avuto il rapporto migliore. Era franco e schietto, come me. A Oddo mi legano le esperienze anche di Reggio Emilia e Pescara: ci faceva giocare bene. Con Mutti ci beccavamo spesso: lui bergamasco, io campano: caratterialmente troppo diversi. Però il mister ci ha regalato la A. Il suo arrivo portò ordine e serenità».

Con Mutti odio-amore?

«Mi sostituì 26-27 volte in quella prima stagione di B, ma mi ha allungato la carriera togliendomi 20 minuti a partita... Con lui si giocava 4-4-2, sulla mia fascia sinistra spingeva Parisi e io ero portato più ad accentrarmi, dall'altro lato correva Lavecchia con Zoro ben piantato in difesa. L'arrivo degli attaccanti a campionato in corsa (Di Napoli e poi Sosa, ndr) fu decisivo per far esplodere quella squadra che all'inizio ebbe non pochi problemi».

Arriva la A. Il sogno della città si avvera la notte del 5 giugno 2004…

«Ricordo tutto. L'attesa, lo stadio pieno, l'emozione per la promozione e per l'ultima recita al “Celeste”, i sacrifici premiati e il regalo alla città che ci osannava. Una serata meravigliosa».

La matricola dalla faccia tosta. Pari a Parma, i 4 gol alla Roma e la memorabile serata di San Siro con l'assist al volo per il pari in corsa di Giampà…

«Era uno schema studiato la mattina in albergo. Mutti ci disse che quel Milan, quella squadra pazzesca, poteva avere un unico difetto nella sua zona difensiva di destra, tra Cafù e Nesta, dove poteva crearsi qualche spazio interessante. E proprio in quella zona trovai il corridoio giusto per mandare Mimmo in porta».

Sul più bello arriva la malattia, la partita più dura da vincere.

«L'ho affrontata senza paura, compiendo il percorso di milioni di persone. Sono stato fortunato, perché la mia aspettativa di vita era del 50%: mentre io vivevo un altro moriva. Ho fatto le cure che prevedeva il mio percorso e ho avuto la forza di ricominciare daccapo e di tornare in campo».

Il 29 maggio 2005 tutto il “Franco Scoglio” in piedi. Mutti ti regala 5' in un Messina-Livorno…

«Avevo 17 presenze, da buon napoletano non volevo chiudere la stagione con quel numero. Chiesi al mister di entrare pochi minuti con il problema, però, dell'antidoping. Prima della partita denunciammo il tutto nel caso in cui fossi stato sorteggiato. L'ovazione della gente una grande emozione».

L'anno dopo è idillio con Ventura, decisivo per il percorso da allenatore…

«Giocavo già di meno, ma il mister apprezzò il mio ruolo nello spogliatoio. Bastarono 7 settimane per instaurare un ottimo rapporto. Quando smisi col calcio proprio il vice di Ventura interruppe la collaborazione col mister. E quest'ultimo mi propose quel ruolo».

Bari, Torino, la Nazionale e il Chievo. Esperienze importanti, una traumatica vista la mancata qualificazione ai Mondiali di Russia…

«È lo sport: c'è uno che vince e uno che perde. Lo spareggio con la Svezia fu la conclusione peggiore del nostro percorso azzurro. Se ne dissero tante, ma nessuno dei nostri ci giocò contro. La maglia azzurra è un sogno per tutti, nessuno ha remato contro».

Il calcio riparte forse solo in A.

«La Serie A dà la possibilità a tutto lo sport di esistere e sostentarsi attraverso la mutualità dei diritti tv e i contributi che il Coni, anche grazie alle scommesse, distribuisce anche a tutte le altre discipline. Troppi interessi per non farla ripartire. Rinunciare vorrebbe dire lasciare sul tavolo tanti soldi e per il sistema sarebbe un problema».

Il livello tecnico del calcio si è abbassato rispetto a vent'anni fa?

«Una volta in A c'erano un centinaio di giocatori in meno. Quelli giocavano in B, oggi li ritrovi al piano di sopra. E il discorso a ruota comprende anche le categorie inferiori. Rispetto a prima c'è più velocità, ma meno tecnica».

Obbedio, tuo grande amico, è reduce da una sfortunata parentesi all'Acr.

«Chi ha perso la fiducia in lui dopo la sua esperienza da ds sbaglia. È un professionista, l'anno prima aveva salvato una Lucchese con la penalizzazione (-25!) con una squadra fatta con pochi soldi. Non si misura una persona per una stagione negativa».

C o D, alleneresti il Messina?

«Non conta la categoria, ma il progetto, la possibilità di lavorare con le strutture, l'obiettivo. Ci vuole la giusta programmazione per poter far bene. Ricordate Nicola Salerno dopo Lecce? Non cacciò nessuno, confermò la squadra che poi vinse la C2. L'anno dopo due innesti e fu B. Così si fa!».

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