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"Quando Borsellino mi chiese di non scrivere delle sue paure: temeva per la sua famiglia"

Vincenzo Vasile, che ha insegnato giornalismo all’Università di Messina, firma di punta del giornalismo italiano, e che ha diretto l'Ora di Palermo, dove nel 1972 aveva mosso i primi passi professionali abbiamo provato a tracciare un bilancio di questi trent'anni facendo riaffiorare i ricordi da cronista.

«Mi parlò anche col sorriso complice dei reduci di quei tempi di “impegno politico”, all’università di come il lavoro, quel “suo” lavoro avesse rimescolato amicizie e valori come succede talvolta nelle zone di frontiera, negli avamposti abbandonati dal mondo, dove un manipolo di coraggiosi continua combattere “con la scimitarra” anche se gli altri al quartier generale hanno da tempo alzato bandiera bianca». Le pagine del giornale sono ingiallite. Ma è la cronaca che diventa storia. Sono trascorsi trent' anni da quel tragico diciannove luglio, quando, a distanza di 57 giorni dalla strage di Capaci, un’ondata di fiamme in via D’Amelio ha dilaniato la vita del giudice Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Una mattanza. Seguita da una serie di puntate di un processo senza fine. Con Vincenzo Vasile, che ha insegnato giornalismo all’Università di Messina, firma di punta del giornalismo italiano, e che ha diretto l'Ora di Palermo, dove nel 1972 aveva mosso i primi passi professionali abbiamo provato a tracciare un bilancio di questi trent'anni facendo riaffiorare i ricordi da cronista.

Ha avuto modo di incrociare Falcone e Borsellino. Che ricordi le hanno lasciato?

"Quando Falcone non era ancora Falcone e meno che mai Borsellino era Borsellino, li conobbi, li frequentai, gli esponenti del “pool” tirato su dalle macerie dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo dal capo, Rocco Chinnici. Che era più anziano di me di una ventina d’anni, e rispetto a loro di una decina, ma li chiamava lo stesso “ i miei ragazzi”. Chinnici convocò alcuni – pochi – investigatori della polizia, dei carabinieri e della guardia di Finanza di cui si fidava. Disse loro di sviluppare in un’ottica complessiva storie e personaggi fino allora slegati, suggerì di andare nelle banche e di sviluppare il filone dei traffici di droga. C’era un giro di assegni milionari ritrovati nelle tasche del boss in doppio petto Giuseppe Di Cristina ucciso a Palermo dopo aver cominciato a collaborare sottobanco con i carabinieri . E scelse uno per uno i suoi “ ragazzi” che riteneva più adatti a seguire le varie inchieste. Soldi contro droga, risciacquati in banca, valige pieni di dollari all’aeroporto di punta Rasi lato partenze per gli USA. E l’affare droga risultava unificare le varie famiglie: le “vecchie” di solito dipinte dai rapporti di polizia come estranee al traffico e le altre, considerate rampanti violente e spregiudicate. Già da allora al fianco di Falcone in un’inchiesta parallela sui traffici di droga si ritrovò Paolo Borsellino (che noi cronisti di giudiziaria non sapevamo essere un amico di infanzia di Falcone, ma più che altro uno che da giovane aveva militato in gruppi di destra e soprattutto lo sottovalutavamo perché imparentato con un anziano magistrato tradizionalista che era stato primo presidente della Corte d’appello di Palermo). Ci volle poco a capire che era diventata una squadra affiatata, che ebbe la sua prova del fuoco nell’inchiesta sul gruppo mafioso che aveva aiutato Sindona nel falso sequestro: le famiglie Spatola, Gambino, Inzerillo, Di Maggio, legate da una ragnatela di parentele a potenti capi mafia dell’altra parte dell’oceano. I ragazzi di Chinnici mostrarono – quando i computer erano ancora una rarità nei palazzi di giustizia – una grande capacità di accumulare e organizzare informazioni e nessi e di mettere a frutto le indagini di investigatori bravissimi, che spesso pagheranno con la vita il loro impegno, come Boris Giuliano, Ninni Cassarà è il colonnello dei carabinieri Emanuele Basile. E finalmente dopo anni di insabbiamenti trovarono una sponda nella procura della Repubblica diretta da Gaetano Costa".

Ma che anni erano? La mafia non faceva notizia...

"Erano anni – quelli sul finire dei Settanta – in cui i delitti di mafia, anche i grandi delitti, non guadagnavano le prime pagine dei giornali nazionali e i riflettori dell’opinione pubblica erano puntati sul terrorismo".

Più volte ha detto che Con Chinnici aveva più confidenza... Che aria respirava un cronista in quegli anni?

"Con Chinnici avevo più confidenza, mi parlava con fierezza dei “suoi ragazzi” che avevano sfornato pagine e pagine che avrebbero dato una svolta alla storia non solo giudiziaria della lotta alla mafia. Falcone, gentilissimo, ma di una riservatezza disarmante riguardo al suo lavoro (era in vigore il processo istruttorio, sinonimo di segreto, e come sappiamo i giudici di Palermo sapemmo qualche anno dopo tenere segrete per mesi e mesi le rivelazioni di Buscetta); Borsellino – un po’ più loquace – almeno qualche dritta te la dava (e molti di noi sospettavano che la divisione dei ruoli fosse concordata). Tutto ciò andava in scena ogni mattina al piano terra del tribunale, nessun vetro blindato, suonavi il campanello ed entravi negli uffici, sebbene Chinnici avesse chiesto più volte tutele e scorte più efficaci, fino alla vigilia della morte, 29 luglio 1983: la prima strage ormai dimenticata con un’autobomba, i carabinieri e il portiere dello stabile dove il giudice abitava uccisi assieme a lui".

Poi ebbe l'occasione di incontrare Borsellino. Quando?

"C’era già stato il maxiprocesso, Falcone era “aggiunto” in procura (e qualcosa trapelava di attriti con il capo), io mi ero trasferito a Roma e tornavo a Palermo come inviato: prendo il telefono e chiamo Falcone, che accetta un’intervista di “bilancio”, mi pare, a due anni dal maxi processo dalla quale speravo di far venire fuori la guerra sotterranea che veniva fatta ai giudici del maxiprocesso, dopo essere stati esaltati come i paladini dell’antimafia. Arrivato a Palermo, una doccia fredda, Falcone mi dice che per qualche ragione ci ha ripensato, mi offre un’alternativa, chiamare Paolo Borsellino – nel frattempo procuratore a Marsala – ed era sottinteso che parlare con lui sarebbe stato eguale. Non c’ero mai stato a casa Borsellino, in quel salotto del centro residenziale della parte più decorosa della “nuova” Palermo. E mi accorsi di non avere mai parlato per davvero e conosciuto per davvero Borsellino. Che mi disse che lo Stato per il quale avevano combattuto ormai dava tutti i segni di averli abbandonati, i giudici-ragazzi del compianto Chinnici. E mi rivelò particolari privatissimi delle conseguenze di quello stato d’assedio. Per esempio i problemi psicologici di una delle figlie dopo la “detenzione” all’Asinara di tutta la famiglia, assieme a Giovanni e a Francesca Morvillo, quando i due amici di infanzia del quartiere Kalsa si erano ritrovati a scrivere le mille e più pagine della sentenza di rinvio a giudizio del maxi processo, e di punto in bianco dal ministero avevano fatto sapere di non poter garantire l’incolumità loro e delle famiglie. Poi avevano presentato il conto della permanenza nell’isoletta-carcere, come se si fosse trattato di una vacanza. Con le lacrime agli occhi, diede un bacio sulla guancia alla ragazza: “Va in palestra qui di fronte, ma come faccio a impedirglielo o a farla scortare? Così mi affaccio e prego. Queste cose, la prego, non le scriva, sennò aggrava la sua tensione, e i problemi aumentano”, mi chiese strascinando le parole dolorosamente e accendendo la ventesima sigaretta".

E lei cosa fece. Ripose il taccuino in tasca?

"Io evitai di scrivere troppi particolari. Ma Borsellino quella volta mi rivelò con un sorriso soddisfatto che Leonardo Sciascia, dopo averlo attaccato, aveva chiarito con una lettera il suo pensiero e che così aveva sentito il bisogno di fare con Falcone. E del resto non era stato proprio lo scrittore siciliano a mitizzare la forza di quelli che chiamava “uomini di tenace concetto” in grado di combattere la mafia? A quindici anni – gli raccontai – mi era capitato di affrontare proprio questa questione con lo scrittore in un dibattito pubblico: io ero molto scettico sull’idea che funzionari dello stato, poliziotti o magistrati potessero battere la mafia (dopo un secolo di connivenze e trame che avevo precocemente appreso da libri e giornali), e Sciascia garbatamente mi aveva invitato ad abbandonare gli schemi ideologici, per apprezzare, appunto, quegli “uomini di tenace concetto”. Quando erano apparsi all’orizzonte Falcone e Borsellino, li aveva scambiati invece per professionisti dell’antimafia… Ci mettemmo d’accordo perché io recuperassi il resoconto stenografico - pubblicato nel 1964 da L’Ora - di quel dibattito pubblico alla Kalsa per il centro di cultura presieduto da Danilo Dolci, al quale avevamo partecipato io ragazzino forse coi calzini corti e lui il grande intellettuale di riferimento della sinistra siciliana, giovanile e non, e glielo inviassi a Palermo. Ma me ne scordai, passò tanto tempo, Borsellino non lo avrei visto più tranne che nei telegiornali nei giorni delle stragi".

Sulle celebrazioni pesa la recente sentenza del processo a Caltanissetta sul depistaggio, (prescrizione per due poliziotti e assoluzione per il terzo) che ha creato amarezza tra i familiari delle vittime. Cosa resta a distanza dei trent'anni. Secondo lei si arriverà alla verità?

"Resta poco, e quel poco è sommerso dai veleni che come ai tempi di Falcone e Borsellino venivano distillati copiosamente dal Palazzo di giustizia di Palermo e dagli apparati. E in questo senso si potrebbe paradossalmente dire alla maniera di Sciascia che il “contesto” ha prevalso su tutto, e ha soffocato quanto  di positivo era rappresentato dall’eredità di quel pool. La verità? Ci credo poco. Ho visto che il nuovo super procuratore antimafia, che ricopre il ruolo che Falcone aveva costruito per sé e che un ministro poco prima della strage di via D’Amelio aveva promesso per Borsellino, chiede scusa per i depistaggi. Borsellino, che aveva un suo humour molto amaro, avrebbe riposto: "Prego!" E avrebbe acceso l’ennesima sigaretta".

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