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E il mondo ricomincia con Eschilo e il “sole” a led: "Coefore Eumenidi” secondo Livermore

Inda, ieri la prima al Teatro di Siracusa : la tragedia come spettacolo totale

Deve partire dallo sguardo, la nuova stagione di rappresentazioni classiche dell’Inda a Siracusa. Da uno sguardo in particolare: quello degli spettatori assiepati nella cavea, nell'anno 1921 – cento anni fa esatti – a celebrare una rinascita, dopo la Prima Guerra e l'epidemia di febbre spagnola: possiamo vederli, attenti e protesi, ancora increduli di ritrovarsi comunità, di essere sopravvissuti, di sentirsi nelle vene una smania di ricominciare, rinascere, riaffermare – dopo le stagioni del buio e della rovina – il primato della bellezza, dell’intelligenza, di quella cosa ineffabile e potente che gli antichi chiamavano logos.

Li vediamo, quegli spettatori remoti e fratelli, nelle foto in bianco e nero della mostra aperta giovedì a Palazzo Greco. Ci confondiamo con loro – prodigio della multimedialità – e assieme a loro guardiamo riprendere vita frammenti delle “Coefore” messe in scena un secolo fa dopo sette anni di silenzio e paura.

Poco distante, sul colle Temenite, sta accadendo ancora, di nuovo. E non è solo il consueto prodigio della parola e del gesto che riaprono le vie tra i mondi: quest'anno ha una risonanza e un valore particolare – lo ha sottolineato più volte il sovrintendente Antonio Calbi – ritrovarsi comunità che condivide l'emozione e la bellezza. Che poi è lo spirito più autentico del teatro antico che viene da cento anni riproposto sulle pietre di Siracusa: non mettere in scena secondo presunte filologie testi vecchi di millenni, ma riaprire domande, scandagliare l'umano, rivisitare i conflitti della ragione, del cuore, dello spirito attraverso quello che sappiamo – che abbiamo capito, che possiamo – dell'arte dello spettacolo.
1921-2021: un mondo che prova a risollevarsi guarda un palcoscenico dove c’è l'uomo con la sua fragilità, e che pure dialoga con gli dei, con l'infinito, con la morte.

Ha debuttato ieri per l’Istituto nazionale del Dramma antico, in apertura della 56. stagione delle rappresentazioni classiche, “Coefore Eumenidi”, caposaldo del teatro antico, le due tragedie di Eschilo (nella bella traduzione di Walter Lapini) unite sotto la direzione di Davide Livermore, che aveva firmato, nell'ultimo ciclo prima della pandemia e della chiusura forzata, un’indimenticabile “Elena” assai amata dal pubblico.

Quello che si apre, stavolta, davanti ai nostri occhi ansiosi è un campo di rovine, un ponte crollato, tra macerie e oggetti coperti di neve. Il caldo di luglio è azzerato dal nucleo freddo che pulsa al centro esatto della scena, che è il centro del mondo: non più il sole, ma il suo collasso in forma di buconero-stargate-occhiosenzapalpebre, un'installazione a led mozzafiato che splende di luce nera e si anima solo di fulmini, magma ribollente, materia primordiale. Una sfera minacciosa che sovrasta ogni cosa, passaggio misterioso e interdetto, da cui sorgono fantasmi (Agamennone, l'assassinato, la cui tomba, sulla quale s’incontreranno i fratelli Elettra e Oreste, è un altro cerchio, a terra), una pupilla febbrile che scruta e accusa. Perché va in scena un dramma fitto di accuse e dolori e vendetta, col ritorno di Oreste (un efficacissimo Giuseppe Sartori) nella sua città dieci anni dopo l’omicidio del padre Agamennone voluto dalla madre Clitennestra (una Laura Marinoni che ne illumina la natura ambigua e manipolatrice: perfetta la scena in cui, bugiarda, chiama sul suo seno nudo il figlio che sta per ucciderla) per mano dell’amante di lei Egisto (scriteriato e dissoluto, delineato in poche mosse da Stefano Santospago).

Lì, su quella tomba – sotto il sole imploso che nulla illumina e tutto rende tristo e crudele – Oreste depone un’offerta votiva. Che non è – come aveva scritto Eschilo, come era uso antico – un ricciolo dei suoi capelli, ma un proiettile d’oro. Oreste è armato, tutti lo sono, su questa scena che è la scena di sempre dell’umanità preda della vendetta: le pistole scintillano, gli stessi fratelli Oreste ed Elettra (Anna Della Rosa) prima del riconoscimento e dell’abbraccio si puntano contro le armi. Molto spareranno, quelle pistole, così come i mitra delle guardie vagamente naziste che presidiano l’ordine scomposto e feroce degli usurpatori. È la colonna sonora inevitabile della storia dell’uomo, così tragicamente devoto ai suoi demoni.

Oreste dà il nome alla trilogia, perché Oreste è null’altro che l’uomo caduto nell’ingranaggio inarrestabile della violenza che chiama violenza, della vendetta come dovere e come condanna, come – parola forte di questi tempi – contagio («Sento su di me il dolore di tutti i delitti compiuti, di tutti i delitti subiti... ora anch’io sono un contagiato, anch’io sono un impuro»): il mondo di cui sono garanti le potenti Erinni, dee oscure e primordiali, persecutrici di chi versa il sangue dei congiunti. E se l’intera vicenda porterà la salvezza di Oreste, protetto da Apollo (un Giancarlo Judica Cordiglia in smoking e classe felpata da Bond) e per il quale Atena (la severa Olivia Manescalchi, ma c’è in scena anche la sua “statua” perennemente in posa, Federica Cinque: il “doppio” è sempre spunto caro a Livermore) istituirà il primo tribunale giudicante della storia, segnando il passaggio a una fase diversa della civiltà – con le furiose Erinni trasformate in benevole Eumenidi – gli interrogativi restano aperti.

Il pensiero greco, il teatro tragico hanno incardinato alcuni dei temi fondanti del nostro mondo. Tra questi, uno dei più pesanti, e assillanti fin dentro il nostro democratico presente, è il tema della “giustizia giusta”, del rapporto tra giustizia e legge. Oreste il matricida si salva (con un verdetto di parità deciso dal voto di Atena), il mondo spezzato si rifonda e ricomincia, ma l’ingiustizia resta nell’ingranaggio, il dolore e la colpa restano in agguato: sul finale della rappresentazione, che pure scioglie il conflitto in armonia, appaiono nella sfera-buconero-stargate alcune tragedie del nostro presente, tragedie senza giustizia (il cadavere di Moro e la gigantesca carcassa della Costa Concordia coricata nel mare, Capaci e Peppino Impastato, e ancora altre violenze senza giustizia, o di incompleta giustizia). Siamo ancora alle domande di Eschilo, 2500 anni dopo. Siamo ancora a Ifigenia, principessa sacrificata dal padre, come la principessa Mafalda di Savoia morta nel lager. Siamo ancora alla faida, al sangue che chiama sangue in una catena infinita.

Livermore dipana questa trama scottante come avevamo già visto nella sua “Elena”: facendo della tragedia un dispositivo di spettacolo totale (come d’altronde era nel mondo antico), utilizzando pezzi d’immaginario, riferimenti visivi e sonori che siano per lo spettatore immediatamente evocativi (l’auto e le uniformi riportano agli anni 30 e 40, il lamè di Clitennestra e la sua morte sono una forte citazione cinematografica, dentro a una folla di richiami, omaggi, rimandi). I costumi (di Gianluca Falaschi) sono fondamentali per «lavorare sul ricordo e la memoria» degli spettatori: evocano il potere dispotico e i suoi simboli, la dissipazione e poi la severa ricostruzione. La musica (di Andrea Chenna) nasce in scena, eseguita da due pianisti, ma la partitura va oltre, informa di sé le voci, sostiene i gesti, colma gli spazi (e questo è davvero “filologico”: ricostruire con strumenti moderni un meccanismo antico).

Il regista chiede molto agli spettatori, ma dà molto. Magistralmente diretta, sostiene con intensità più di due ore e mezza di spettacolo una compagnia di grande valore, in cui spiccano anche le Erinni ambigue di Maria Laila Fernandez, Marcello Gravina, Turi Moricca e le Coefore (le portatrici di doni ai defunti che vengono dalle Erinni uccise: pietà l’è morta, quando regna la vendetta) Gaia Aprea, Alice Giroldini, Valentina Virando (e le cantanti Chiara Osella, Graziana Palazzo e Silvia Piccollo).
Ieri grandi (e liberatori) applausi alla prima inaugurale della stagione, presenti le ministre Cartabia e Lamorgese (e si attende il presidente Mattarella per il 19). Si replica, in alternanza con le “Baccanti” di Carlus Padrissa, stasera al debutto, fino al 31 luglio. Da non perdere.

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