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Se il cinema è «Spaccaossa». A colloquio con l’attore e regista messinese Ninni Bruschetta

Una produzione d’eccellenza siciliana che conferma quanto sia importante «riportare al centro dell’attenzione la politica culturale»

E’ il direttore della fotografia indolente e filosofo (e adesso pure... cieco, alla Woody Allen) nella serie di culto “Boris 4”, è un supercattivo nel bel film di Vincenzo Pirrotta “Spaccaossa”, appena approdato in sala. E intanto il teatro, tanta tv in fiction molto popolari, e persino il jazz. L’attore e regista messinese Ninni Bruschetta è uno dei volti più amati di piccolo e grande schermo – pure se il suo amore di sempre, assolutamente ricambiato, è il palcoscenico – e questo è tanto più importante in un momento così difficile per lo spettacolo. Un artista italiano ma siciliano, cittadino della libera repubblica dell’immaginazione e del dramma ma profondamente radicato nel suo luogo d’origine, a cui non smette di tornare e, come accade a tanti artisti e intellettuali meridionali, per cui non smette d’immaginare il futuro. Ne abbiamo parlato con lui.

Che operazione è Spaccaossa, e qual è il tuo ruolo?
«Non vorrei avere la presunzione di parlare come un critico, ma secondo me Spaccaossa è una tragedia greca raccontata con il linguaggio cinematografico. Lo è perché il suo autore, Vincenzo Pirrotta è un grande uomo di teatro, perché la livida fotografia di Daniele Ciprì lo rende tale e soprattutto perché è un film interamente realizzato da artisti siciliani, che sono i custodi di questo genere classico. È un’operazione produttiva encomiabile, di Salvo Ficarra e Valentino Picone, che hanno realizzato quella che è, forse, la prima impresa cinematografica siciliana. Il mio ruolo è facile da sintetizzare: ho fatto tanti “cattivi” nella mia carriera. Ma questo è il più cattivo».

La tv di Boris, il cinema di Spaccaossa, il teatro di?...
«Per ora sto girando il film di Bruno Colella, poi farò quello di Eduardo Winspeare, mentre partecipo, con un piccolo ruolo, a una grande serie, su cui non posso anticipare niente e poi torno nei “Bastardi di Pizzo Falcone”. A gennaio riprendo col Teatro. Prima con una novità allo Stabile di Cagliari, poi a Catania con uno Sciascia e poi all’Aquila riprendo lo spettacolo su Umberto Eco, con la regia di Giuseppe Di Pasquale, che, mi dicono, dovrebbe venire anche a Messina. Me lo auguro».

Ce lo auguriamo. Intanto: in “Spaccaossa” sei con Vincenzo Pirrotta, Ficarra e Picone, Daniele Ciprì: un'eccellenza siciliana, che segue a ruota quella “Stranezza” pure tutta siciliana che ha conquistato il botteghino. C'è, in un momento alquanto difficile per il cinema e il cinema italiano, questa ventata sicula di eccellenza che fa ben sperare, che ne dici?
«Ne ho parlato prima, c’è una realtà produttiva importante. Bisogna dire che noi siciliani siamo da molti anni tra i protagonisti del cinema italiano. Quello che sembra stia succedendo adesso è che, per diversi motivi e congiunture, stiamo cominciando a produrre sul territorio. È un’occasione per riportare la politica culturale al centro delle attività imprenditoriali del nostro territorio. Noi dovremmo vivere di turismo e di cultura. È tutto ciò che abbiamo, ma non è poco: siamo la terra più bella del mondo e siamo la culla di innumerevoli grandi artisti. Devo citare i nostri nobel? I nostri beni archeologi? Le spiagge? Le isole?».

Siculamente, entriamo nello zappato: che ne pensi della situazione dello spettacolo, e particolarmente del teatro, dopo la ferita profonda della pandemia e con la crisi che morde anche gli enti più... stabili?
« “Il teatro è in fin di vita, ma lo è sempre stato”, diceva Fassbinder. A parte le battute, il teatro è in crisi perché è in crisi la politica e l’amministrazione pubblica, con cui è legato a doppio filo, per motivi economici, ma anche per la miopia di certi teatranti e di certi politici. Dopo la pandemia i teatri si sono riempiti all’inverosimile. Non è il pubblico che manca, manca una legge adeguata per il teatro che riequilibri i finanziamenti e liberi il mercato. Dopo anni di errori e di leggi scellerate, i teatri pubblici sono diventati più poveri di quelli privati. Questo è un danno per il mercato e per la produzione culturale. Le soluzioni ci sono e sono tante. Ma la cosa più importante è restituire i teatri ai teatranti, anche quelli pubblici».

Teatro di Messina, hai preso una posizione molto netta, ce lo hai raccontato da poco, c'è un seguito? E tu, se avessi “pieni poteri”, che scelte faresti?
«No, non c’è un seguito. E non c’è bisogno di “pieni poteri” per capire che il Teatro di Messina non funziona da sei anni. Io so perfettamente perché, ma non è questa la sede per parlarne dettagliatamente. Certo non si può tacere il rammarico nel vedere le attività dei teatri di Catania e Palermo che producono progetti all’avanguardia e che si curano i loro artisti, ottimizzando il rapporto con il territorio che, come dicevamo prima, dispone di una totale autonomia artistica. I cartelloni di questi stabili sono pieni di artisti siciliani, me compreso, ma a Catania, a Messina no. So che può sembrare un falso problema, ma è una cosa gravissima che non era mai accaduta in un teatro come il nostro. Il Teatro di Messina ha sempre sostenuto i suoi artisti, all’inizio, quando eravamo giovanissimi, e poi ci ha seguito durante le nostre carriere, anno dopo anno. Sei anni fa, per motivi ancora a me incomprensibili, con scelte politiche sconsiderate e improbabili, si è riportato il Teatro di Messina ad un provincialismo quiescente che fino a quel momento non aveva mai intaccato la nostra struttura. Questo ha assassinato la produzione, azzerato l’indotto ed emarginato inspiegabilmente proprio quel patrimonio di artisti autoctoni che fino ad allora avevano regalato vent’anni di intensa attività al nostro teatro. E la nostra orchestra? Ve la ricordate? È stata azzerata, nel silenzio generale. Mi domando solo perché? Una città che non riesce più a riconoscere la propria identità culturale racconta la propria crisi. Mi fa arrabbiare quando qualche amico, magari per essere carino con me, mi dice: ma che te ne frega, tu hai il tuo lavoro la tua carriera, che te ne frega del Teatro di Messina? Io lo guardo e gli rispondo: ma tu di dove sei? Come fai a dire questo? Il teatro della mia città? Il teatro dove sono cresciuto, che ho rappresentato e che mi rappresenta? In questo momento mi viene in mente una pagina meravigliosa di quel teologo che fu (per poco) anche Papa: La prima cosa che Pilato chiede a Gesù è “da dove vieni?” Maometto dice che siamo di dove nasciamo. Nessuno più di me è ancora di Messina. Farò sempre il massimo per Messina e per la nostra cultura. Intanto speriamo che l’Acr non rimanga all’ultimo posto!».

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