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Medea, la maga nel salotto di Ibsen. Due mondi in scena a Siracusa

La seconda tragedia del ciclo classico al Teatro greco di Siracusa per l’Inda. Una perfetta Laura Marinoni incarna una delle figure più potenti di sempre nello spettacolo diretto da Federico Tiezzi

«Bastardo!», lo accoglie Medea, e tutti noi 4600 della cavea sobbalziamo. E sì, nessuno, nemmeno i più accaniti patriarchi o maschilisti (che non sono necessariamente uomini), sta con Giasone. Siamo tutti avvinti da Medea, lo straordinario personaggio scritto da Euripide che ha avuto una storia e una fortuna ininterrotte dal 431 a. C. fino a oggi, e da Laura Marinoni, la straordinaria interprete che le ha dato l’ennesima vita, sulle pietre del Teatro greco di Siracusa, nella seconda delle due tragedie in scena, con la regia di Federico Tiezzi, per il 58. ciclo di spettacoli classici del sempre benemerito Inda.

Con quell’epiteto magistrale – perentorio, pieno, come tutta l’interpretazione della Marinoni, che nello stesso luogo, a cui ormai appartiene come una sorta di “potenza tutelare femminile assoluta”, era stata di recente una sontuosa Clitennestra nell’ “Orestea” e una magnetica “Elena” – si apre una delle più potenti parti della (applauditissima) tragedia: il dialogo col fedifrago Giasone (un convincentissimo Alessandro Averone), il marito che l’ha abbandonata per un’altra donna, un buon partito, la principessa di Corinto figlia di Creonte.

Siamo nel pieno del dramma borghese-dionisiaco che Tiezzi ha immaginato, creando una scena il cui cuore è appunto un interno borghese, arredato con tavoli, sedie, busti decorativi (scenografie di Marco Rossi), percorso da solerte servitù: il coro, le donne corinzie, fantesche in cuffietta e grembiule ottocenteschi, gli stessi abiti – opera di Giovanna Buzzi – della nutrice (l’accorata Debora Zuin), del nunzio (molto brava Sandra Toffolatti, che deve evocare in scena il doppio omicidio di Medea, che coi suoi doni avvelenati ha ucciso Creonte e la figlia).

È uno dei punti in cui più si mostra, per la gioia degli spettatori – avvinti come sempre, come Greci antichi che conoscevano benissimo le storie eppure continuavano a volerle vedere, sentire, vivere in scena – la complessità dell’animo di Medea, scisso tra passioni fortissime e inconciliabili: l’odio per Giasone, l’amore per i figli, l’orgoglio che non può consentire ai nemici di trionfare, men che meno di deriderla («maledetto il mio orgoglio»).

«Bastardo!», ripete Medea – così l’egregio Massimo Fusillo ha tradotto l’originale «pankàkiste» o «kàkist’andron» (il peggiore degli uomini) – fiera e terribile, davanti al discorso mellifluo, falsamente pacato, incardinato sul più flautato “mansplaining” di Giasone, arrogante e autocentrato come uno yuppie, ma anche nella tradizione – sottolinea il regista – «dei grandi, tracotanti titani ibseniani».

Si fronteggiano – nello spazio aperto-chiuso della scena, un interno spalancato nella zona liminare che è, a Siracusa più ancora che in altri teatri di pietra, vero confine fisico col bosco, avvolto nella natura – due diverse violenze che Tiezzi fa scontrare e deflagrare: la violenza primordiale di Medea, maga e figlia di Colchide, una violenza originaria che è come quella magmatica dell’inconscio, e la violenza simbolica della “civiltà” superiore, del capitalismo (e maschilismo, aggiungiamo noi che restiamo ipersensibili al protofemminismo di Medea, senza per questo incorrere nel reato di anacronismo). Il mondo preverbale dell’inconscio, delle potenze dionisiache, e il mondo apollineo normato da legge e ordine. Il mondo matriarcale e il mondo patriarcale. Il mondo della tragedia, il mondo del dramma borghese: che collidano e deflagrino, per la gioia del pubblico (invero entusiasta).

Ma questo sarebbe ancora poco, sebbene sia profondamente dentro tutto lo spettacolo, per esempio nell’egregio uso della musica e dei cori (molto bravi Silvia Colasanti, che ha composto le musiche originali, tra cui il prologo corale di voci bianche, registrato all’Opera di Roma; Ernani Maletta, “concertatore” di voci inseguendo la sua idea di teatro come polifonia globale; la maestra del coro Francesca Della Monica), dai suoni etnici, gli impasti corali, la gestualità rituale all’atomizzazione dell’individuo, che perde la sintassi sociale del gruppo, la sintassi tonale dei suoni, e si chiude nella solitudine asfittica del salotto borghese.

Quello che conquista, nel dialogo del «bastardo», è poi quell’attrazione-repulsione tra Medea e Giasone. Medea che vuole «mangiare il cuore» di Giasone eppure lo bacia con passione, lo morde per amarlo e per annientarlo, mentre lui la scaccia e l’accarezza, la insulta e la palpa con furia. In ogni confronto di Medea col suo proprio cuore e con il maschio, con il potere, vibrano la sua natura violenta e il suo dissidio impetuoso ma lucido, che a volte si saldano nella stessa frase (la Marinoni è perfetta, in queste suture).

Nulla la spaventa, pure se talora deve dipingersi come donna debole per definizione (come i Greci pensavano, in effetti), tanto da supplicare la protezione d’un altro maschio, Egeo (un perfettamente cechoviano Luigi Tabita). Non la spaventa nemmeno il potere di Creonte (Roberto Latini), che entra in scena con una maschera da coccodrillo e tre coccodrilli-guardaspalle-servitori: al primo ingresso dei personaggi, queste grandi maschere (molto belle scenicamente, ma certamente non essenziali nel definirci le forze in gioco) ne simboleggiano indole e ruolo, come la maschera d’elegante rapace di Medea (il cui abito è decorato da piume regali), come le maschere da coniglio bianco dei bambini, innocenti vittime sacrificali (Matteo Paguni e Francesco Cutale, accompagnati in scena dal loro “pedagogo”, Roberto Livermore, insolitamente giovane per dichiarata, e poetica, reminiscenza pasoliniana).

Medea la straniera, la sciamana, la maga del mondo primitivo che pure ha subito violenza e ingiustizia da parte del mondo “civilizzato” e dai suoi coccodrilli in doppiopetto, avrà bisogno per vincere d’un sacrificio di sangue, in una vittoria dolorosa: l’infanticidio resta il buco nero, il punto che pure non è di svolta (molto suggestiva la scena al buio, illuminata solo da bagliori sanguigni). Medea che comunque trionfa sui suoi nemici, e diventa “dea ex machina” di se stessa, della sua stessa storia (non è già un buon manifesto femminista per tutti i tempi?): la vediamo, abbigliata d’oro, in alto sul carro del Sole (che in realtà – poco comprensibilmente – è proprio il cestello d’una gru, con tanto di strisce bianche e rosse), lontana dalla disperazione di Giasone in terra, mentre il palazzo – la famiglia – crolla e vanamente le fantesche tenteranno di lavarne il sangue.

Menzione speciale, come sempre, per la bravura del coro: Francesca Ciocchetti (prima corifea) e Simonetta Cartia (prima coreuta e direttrice del coro), Alessandra Gigli, Dario Guidi, Anna Charlotte Barbera, Valentina Corrao, Valentina Elia, Caterina Fontana, Francesca Gabucci, Irene Mori, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentini e Claudia Zappia. Nel coro anche gli alievi dell’Accademia Inda: Jacopo Sarotti, Alberto Carbone Carlo Alberto Denoyè, Sebastiano Caruso, Moreno Mondì, Andrea Bassoli, Alessandra Cosentino, Gaia Cozzolino, Sara De Lauretis, Lorenzo Ficara, Leonardo Filoni, Ferdinando Iebba, Althea Mara Luana Iorio, Denise Kendall-Jones, Domenico Lamparelli, Federica Leuci, Emilio Lumastro, Arianna Martinelli, Alice Pennino, Edoardo Pipitone, Mariachiara Signorello. Si replica fino al 24 giugno.

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