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Mafia, 42 anni fa l'omicidio del giornalista Mario Francese

Il giornalista Mario Francese

"Uomini del Colorado vi saluto e me ne vado". Correva l'anno 1979. Mario Francese, cronista di giudiziaria del Giornale di Sicilia, si congedò dai colleghi con il suo solito saluto e si diresse verso casa. Ad aspettarlo in viale Campania, in una sera gelida, c'era il killer, Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, che lo freddò alle spalle con sei colpi di pistola. Quello che non fu chiaro subito è che Francese fu ucciso perché dava fastidio ai mafiosi e le sue inchieste puntuali, le sue cronache coraggiose, erano mal tollerate.

Infatti, con l' audacia di chi sa scavare oltre la notizia, si era spinto troppo oltre. E giornalmente dal ticchettio della sua macchina da scrivere uscivano autentiche denunce che si intersecano e restituiscono le pagine di storia più importanti: "la strage di Ciaculli" del 1963, che avrebbe inaugurato la prima guerra di mafia, i primi processi dei corleonesi alla fine degli anni '60, solo per citarne alcuni. E sotto i suoi riflettori, già negli anni '70, c' era proprio Riina, definito un soggetto "tra i più sanguinari" e ancora "un individuo che preoccuperà gli inquirenti". Parole tristemente profetiche. I mafiosi che lo chiamavano "cornuto" avevano digerito a malapena l' intervista esclusiva fatta a Ninetta Bagarella, che si definiva semplicemente "Una donna innamorata", ma non potevano certo tollerare che venisse svelato il piano criminale di "Cosa Nostra" che proprio in quel periodo aveva alzato la posta in gioco, voleva eliminare i rivali, e puntare al controllo degli appalti pubblici.

Francese investigò sulla ricostruzione della valle del Belice, distrutta dal terremoto nella notte tra il 14 gennaio e il 15 gennaio, e in particolare sulla diga Garcia, un' opera in cui furono stanziati una "ballata di miliardi" a cui erano interessati proprio le cosche che avevano architettato un piano di infiltrazione nel sistema dei subappalti, decidendo di fatto quali fossero le ditte alle quali assegnare i lavori. Nel '77 il cronista pubblicò un' inchiesta su questa diga accelerando di fatto la sua condanna a morte.

Per tanti anni, la memoria di questo valoroso cronista del Giornale di Sicilia mentre sull'Isola cadevano carabinieri, poliziotti, magistrati e semplici cittadini onesti che non si giravano dall'altra parte è stata cancellata. Eppure, suo figlio Giuseppe non si rassegnò. Quell'assenza pesava troppo e il desiderio di cercare la verità era troppo pressante. Così supportato dalla famiglia e dal fratello Giulio, oggi presidente dell'Ordine dei Giornalisti di Sicilia, ha cercato a ritroso nelle pagine scolorite, ha fatto riaprire il caso e consegnato all'opinione pubblica l'amara verità risuonata solo nel 2001 da un'aula di giustizia: «Fu un delitto contro la verità l'omicidio di Mario Francese. Fu un delitto di mafia che il 26 gennaio del 1979 spense una voce libera. Fu insieme una vendetta contro un cronista che aveva osato uscire fuori dal coro e un monito per l' intera stampa».

Non appena la matassa fu svelata e la commissione provinciale di Cosa nostra andò incontro ad una condanna, che vide tra i nomi eccellenti Riina e Bagarella, Giuseppe, che vestì i panni del cronista per fare giustizia al padre, decise di togliersi la vita a soli trentasei anni. Oggi la storia di Mario Francese è entrata a far parte della nostra memoria collettiva grazie al figlio Giulio che da anni si impegna a far conoscere questa storia alle nuove generazioni. E rivive nei ricordi di chi, come Vincenzo Vasile, firma storica de "L'Unità" e ultimo direttore de "L'Ora", ha cristallizzato un momento vissuto al Palazzo di Giustizia: «Conobbi Mario ai miei primi passi professionali. Avevo una certa timidezza nel varcare la soglia del palazzo di giustizia per la prima volta da giornalista. Nel 1973, ancora “praticante”, in senso professionale e contrattuale, mi sentivo addosso la responsabilità di coprire la cronaca dell’intera regione. E non avevo mai seguito un processo, della procedura penale conoscevo qualche articolo di codice che mi serviva per affrontare due anni più tardi gli esami di Stato. Dovevo imparare un mestiere, da autodidatta, e anche anzitutto orientarmi. In quel palazzo, inaugurato negli anni '50, ma di stile e impianto del ventennio precedente, volte altissime, scale, scalette, ascensori, aule e uffici di volumetrie differenti per gerarchie e livelli di giustizia, Francese era ovunque. Letteralmente ovunque. Lo incontrai nello stesso giorno in cancelleria, all’ufficio istruzione, in procura, e in un’aula di Corte d’assise d’Appello dove si celebrava il processo d’appello per la strage di via Lazio, una strage ormai vecchia di cinquant’anni. La mia prima battuta con Mario fu forse un po’ blasfema, gli chiesi se per caso avesse il dono della ubiquità, anzi della bilocazione, che a quei tempi il Sant'Uffizio contestava invece con grande scetticismo a Padre Pio. Avvocati, magistrati piccoli e grandi, cancellieri, segretari, uscieri: la sua formidabile rete di fonti gli consentiva una copertura totale della cronaca giudiziaria. Se guardate le collezioni del Giornale di Sicilia trovate una massa enorme di informazioni di routine, una prosa ordinata e senza soprassalti, a volte persino noiosa, un accurato bilanciamento di posizioni: l’accusa, la difesa, la sentenza. In alcune fiction recenti gli sceneggiatori tratteggiano invece un personaggio anacronistico, riscrivendo il profilo professionale e culturale di Mario, con lo stereotipo del cosiddetto “giornalismo di inchiesta”. È invece la normalità, la quotidianità del mestiere di informare, il tratto caratteristico di Francese, e il suo omicidio dice dell’impossibilità, del divieto mafioso del mestiere di informare, alla svolta della metà degli anni '70. Mario lavorava una quindicina di ore al giorno, come facevano a quei tempi i veri cronisti, grandi e piccoli.

Qualche mese prima di morire me lo trovai fuori orario, cioè nel pomeriggio, quando i cronisti giudiziari facevano una sosta, dentro a un’osteria della Vucciria: gli era capitato di essere testimone di un triplice omicidio, le vittime erano ancora sedute, prive di vita, a un tavolo con le carte strette nelle mani. E lui già dopo cinque minuti descriveva la scena del delitto, i colpi, la fuga degli assassini. Era ripresa dopo un periodo di tre / quattr’anni di pax mafiosa la catena di delitti. E la cronaca normale - riferire un rapporto dei carabinieri sui maneggi mafiosi e politici su una diga nel Corleonese - era divenuta impossibile. Un invisibile confine si era spostato. E Mario Francese lavorando normalmente quelle 15 ore al giorno si trovò un passo oltre quel confine per fare nient’altro che il suo mestiere».

 

Il ricordo di Musumeci: Francese migliore storia giornalismo Sicilia

«Parlare di Mario Francese significa parlare della migliore storia del giornalismo in Sicilia. Perché il cronista del Giornale di Sicilia è stato uno dei primi a intuire i cambiamenti all’interno di Cosa Nostra e a descrivere l’ascesa al vertice dei corleonesi e le collusioni con i colletti bianchi, pubblicando, con coraggio, nomi e cognomi dei responsabili. Una scelta che ha pagato con la vita». Lo afferma il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci, ricordando il giornalista ucciso dalla mafia la sera del 26 gennaio di 42 anni fa. «In una giornata come questa - aggiunge Musumeci - rinnovare il ricordo non è uno sterile esercizio di retorica, ma uno stimolo per tutti noi a riflettere a fondo sul ruolo strategico che l’informazione libera deve ricoprire all’interno della società come presidio stabile di legalità e di democrazia».

 

 

 

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