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Stupro di gruppo a Palermo: quando a fallire, purtroppo, è un sistema “culturale”

Sesso, relazioni, potere: al di qua dell’orrore

La cosa che più sconvolge, leggendo i dettagli delle intercettazioni dei sette ragazzi arrestati a Palermo per lo stupro d’una coetanea al Foro Italico la notte del 7 luglio scorso, è la loro età. Il più giovane ha 18 anni appena compiuti, il più vecchio 22. Il gesto, e le modalità con cui lo hanno compiuto – vissuto, verbalizzato, registrato, rievocato – ragazzi così giovani ci certificano una cosa assai più dolorosa del già dolorosissimo dramma in sé: è un intero sistema culturale che ha fallito, o almeno ha enormi falle. E invece d’inventarci sanzioni ulteriori o ipotizzare – come qualcuno sta facendo in queste ore – misure come la “castrazione chimica” (ma c’è chi sui social sta invocando ogni specie di legge, letteralmente, del taglione), cavalcando l’onda di orrore ed esecrazione che quelle parole, quelle risate, quei commenti stanno suscitando, forse dovremmo interrogarci davvero sulla cultura dello stupro che sembra così invincibile, così pervasiva, così antistorica eppure impossibile da sradicare.
Quegli epiteti e quelle immagini umilianti («la gatta» con «100 cani sopra»), quelle chiare manifestazioni di sofferenza della ragazza irrise e commentate, ma anche quel “piano” nella sua brutale rozzezza («falla ubriacare, poi ci pensiamo noi»), quell’epilogo disumano («dopo che si è sentita pure male, piegata a terra, ha chiamato l’ambulanza, l’abbiamo lasciata lì e siamo andati via»), forse seguito pure da intenti “punitivi” per aver osato denunciare, ci mostrano cosa può essere quella cultura attraverso le sue mostruose manifestazioni: la spersonalizzazione della vittima, che in nessun momento è considerata e percepita come un essere umano; il potere del “gruppo”; l’assenza di qualsiasi esitazione davanti alla violenza, che viene anzi giustificata, minimizzata, scotomizzata («ti piace comunque»: anche questo è un meccanismo che conosciamo molto bene); una visione deviante della sessualità, dei rapporti, del potere.
I sette ventenni ci sconvolgono perché la natura estrema, e impressionante, del loro atteggiamento, certificato dalle intercettazioni, ci costringe a fare i conti con una gioventù modernissima – tecnologica, smaliziata, iperconnessa, socialmente evoluta – che mostra questa tragica involuzione, questo punto di caduta vertiginosa. La stessa di cui sono figli i cento e cento femminicidi: gli ultimi proprio in questi giorni, e di donne che – come si raccomanda loro con cura – avevano denunciato, avevano avuto coraggio e s’attendevano tutela e protezione dalla comunità.
E allora chiediamoci, in mezzo al disgusto e all’orrore, e senza cedere alle tentazioni forcaiole (ma certamente invocando la più severa delle condanne), come smontare questo meccanismo, come impedire che infiltri le (in)coscienze. Protezione, vigilanza, controllo, codice penale certamente, ma anche progetti veri di educazione sessuale, anzi educazione alle relazioni, al consenso, al rispetto dell’altro.
Nessuna donna sarà mai al sicuro – fosse pure in uno stato di polizia – se ci saranno uomini, e peggio se giovani uomini, che hanno dentro di sé un’idea così distorta delle donne e di se stessi.

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