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È morto Matteo Messina Denaro, l'ultimo stragista mafioso

Era stato proprio il cancro al colon a mettere sulle tracce del padrino i carabinieri del Ros e la Procura di Palermo, riuscendo finalmente a catturarlo dopo tre decenni di fuga.

L'arresto di Matteo Messina Denaro

Il super boss Matteo Messina Denaro, catturato il 16 gennaio scorso dopo tre decenni in fuga, è morto all'ospedale de l'Aquila, dov'era ricoverato in una stanza protetta a partire da agosto.

L'ex capo mafia, 62 anni, aveva da un tumore al colon da tre anni. Venerdì scorso, era stato dichiarato in coma irreversibile. I medici, rispettando le volontà espresse dal paziente nel testamento biologico, hanno interrotto il suo nutrimento nei giorni precedenti.

Le condizioni del padrino, che aveva subito quattro interventi chirurgici e vari cicli di chemioterapia a partire dal 2020, sono apparse subito gravi ai medici de l'Aquila, che lo avevano seguito fin dalla sua cattura e inizialmente lo avevano sottoposto alle terapie in carcere, dove era stata allestita una cella con un'area infermeria appositamente per lui.

Dopo l'ultimo intervento, il boss, in condizioni molto critiche, è stato trattenuto in ospedale, dove è stato curato per il dolore e successivamente sedato.

Prima di perdere conoscenza, ha potuto incontrare alcuni familiari e dare il cognome a sua figlia Lorenza, nata durante la latitanza e mai ufficialmente riconosciuta. La ragazza, insieme a una delle sorelle del capomafia e alla nipote Lorenza Guttadauro, che è anche sua avvocata difensore, gli è stata accanto negli ultimi giorni.

Era stato proprio il cancro al colon a mettere sulle tracce del padrino i carabinieri del Ros e la Procura di Palermo, riuscendo finalmente a catturarlo dopo tre decenni di fuga.

Matteo Messina Denaro, è stato l'ultimo stragista di Cosa Nostra e la grave forma di tumore al colon gli era stata diagnosticata mentre era ancora ricercato, a fine 2020. Nel periodo in cui è stato arrestato una equipe di oncologi e di infermieri del nosocomio abruzzese ha costantemente seguito il paziente apparso subito, comunque, in gravissime condizioni.

Nei 9 mesi di detenzione, il padrino di Castelvetrano è stato sottoposto a due operazioni chirurgiche legate alle complicanze del cancro. Dall’ultimo non si è più ripreso, tanto che i medici hanno deciso di non rimandarlo in carcere ma di curarlo in una stanza di massima sicurezza dell’ospedale.

Venerdì, sulla base del testamento biologico lasciato dal boss che ha rifiutato l’accanimento terapeutico, gli è stata interrotta l’alimentazione ed è stato dichiarato in coma irreversibile. Nei giorni scorsi la Direzione sanitaria della Asl dell’Aquila ha cominciato a organizzare le fasi successive alla morte del boss e quelle della riconsegna della salma alla famiglia, rappresentata dalla nipote e legale Lorenza Guttadauro e dalla giovane figlia Lorenza Alagna, riconosciuta recentemente e incontrata per la prima volta nel carcere di massima sicurezza dell’Aquila ad aprile. La ragazza, con la nipote del boss e la sorella Giovanna, gli è stata accanto negli ultimi giorni.

La cattura dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra, il 16 gennaio scorso, arrivò trent'anni e un giorno dopo l’arresto di Totò Riina da parte dei Ros. Riina era rimasto libero e ricercato 24 anni, per 43 era rimasto latitante Bernardo Provenzano.

Non è arrivato a compierne trent'anni esatti, Matteo Messina Denaro, che era in fuga da metà 1993 assieme al padre, Francesco. Lui morì il 30 novembre del 1998 in latitanza, nelle campagne di Castelvetrano (Trapani) paese di cui entrambi sono originari e Matteo lo fece trovare «conzato», pronto per la sepoltura con l’abito buono. Per anni nella ricorrenza fece pubblicare necrologi sul Giornale di Sicilia, unico segno della sua esistenza in vita, messa in dubbio da più di un collaboratore di giustizia ma su cui gli inquirenti del pool che gli dava la caccia mai avevano concordato o abboccato ai tentativi di far diminuire la pressione.

Morto Ciccio Messina Denaro, il testimone dell’ala corleonese della provincia di Trapani era stato raccolto da Matteo: in una lettera scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, dopo le stragi mafiose di Roma, Milano e Firenze, preannunciò l’inizio della sua vita in fuga.

Diabolik, u Siccu, un volto invisibile, un’esistenza messa in dubbio nonostante avesse avuto una figlia, oggi ventenne. Il boss stragista, condannato per Capaci, via D’Amelio e per gli eccidi del 1993 a Roma, Firenze e Milano, oltre che per l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito. Di lui si trovarono lettere a Bernardo Provenzano, nel covo di Montagna dei Cavalli: «Qui a Marsala (Trapani, ndr) scriveva stanno arrestando pure le sedie». Motivo per cui si diede alla sommersione, facendo il vuoto attorno a sè e interrompendo qualsiasi collegamento. Intercettazioni e biglietti su di lui sono di anni e anni fa. Non scriveva personalmente ma qualcuno che teneva i contatti per lui doveva pur esserci.

Operato in Spagna all’inizio degli anni Duemila, gli investigatori erano riusciti a ricostruire quale fosse la clinica iberica e a prendere il Dna. Decine gli omicidi per cui è stato condannato, fra questi Vincenzo Milazzo e Antonella Bonomo, che era incinta. Per il suo arresto, negli anni, furono impegnati centinaia di uomini delle forze dell’ordine, di tutte le forze di polizia.

Con Matteo Messina Denaro esce di scena l’ultimo esponente della mafia stragista e si chiude la stagione più terrificante di Cosa Nostra. Quel romanzo criminale era uscito dalla dittatura corleonese di Totò Riina e Bernardo Provenzano. All’uno e negli ultimi tempi all’altro, che nei pizzini chiamava «Zio» con tanto di maiuscola riverente, Messina Denaro era così legato da essere considerato il loro erede naturale. Ma intanto anche la mafia stava cambiando pelle e struttura: non era più l’organizzazione unitaria e verticistica descritta da Tommaso Buscetta ma una federazione di gruppi con un forte radicamento territoriale. La cupola si era dissolta dopo la cattura di Riina nel 1993 e Messina Denaro era rimasto solo il capo delle cosche trapanesi. Benché fosse un fedele estimatore della «tradizione», rappresentata dal padre Francesco morto da latitante nel 1998, il boss era anche un lucido traghettatore, il protagonista di una evoluzione che cercava di lasciarsi la violenza alle spalle per dedicarsi agli affari. Ma i cambiamenti, come ha avvertito la Commissione antimafia, hanno di fatto mantenuto a Cosa Nostra un’intatta «capacità di rigenerazione», un «ampio consenso sociale» e una grande capacità di intimidazione. Di questo processo, di cui Provenzano era stato un anticipatore, Messina Denaro era stato un vero protagonista. Aveva archiviato le condanne per le stragi di Capaci e via D’Amelio, per gli eccidi del 1993 e per la barbara uccisione del piccolo Giuseppe Di Matteo, l’unica barbarie di cui avvertiva un forte peso morale tanto da ammettere il consenso al sequestro ma non alla soppressione del bambino. E aveva quindi proiettato la sua influenza in molti settori economici e ambiti politici, governava la distribuzione delle risorse e l’attribuzione degli appalti e degli incarichi alla cerchia dei fedelissimi.

Si era soprattutto circondato, come ha osservato il procuratore Maurizio de Lucia dopo la cattura del boss il 16 gennaio 2023, di tanti esponenti della «borghesia mafiosa» che gli assicuravano ogni copertura: il geometra Andrea Bonafede, del quale aveva adottato la nuova identità, il medico Alfonso Tumbarello e altri personaggi che tenevano un piede nel mondo delle professioni e un altro nelle logge della massoneria.

In queste condizioni Matteo Messina Denaro si dedicava agli sfarzi, ai piaceri della vita e perfino al gusto ostentato delle buone letture. A rendere meno triste la sua trentennale latitanza, tra cambi di covi e fughe improvvise, era soprattutto una rete di conoscenze e relazioni femminili. Il caso più emblematico non è quello della vivandiera che gli portava da mangiare nell’ultimo covo di Campobello di Mazara ma quello che racconta la storia privata tra Matteo e la maestra Laura Bonafede, poi arrestata, con la quale si incontrava anche tra i banconi di un supermercato facendosi beffardamente riprendere dai sistemi di videosorveglianza.

Tra tanti amici, complici e fedeli compagni di strada alla fine si fidava soprattutto di una donna: la sorella Rosalia conosciuta come Rosetta. Era lei a gestire, come una meticolosa ragioniera, la cassa di famiglia e la rete di trasmissione dei "pizzini" in cui aveva il nome in codice di «Fragolone». Era lei per Matteo, il fantasma senza volto, il riferimento certo ma alla lunga si è rivelato anche il suo punto più critico: tra i mille pizzini del fratello custoditi come sacre reliquie ce n'era uno che era una sorta di diario clinico di un malato oncologico. E da lì è partita l’indagine culminata con l'arresto.

Fine di una storia e fine di un uomo che viveva nel mito di se stesso con il covo riempito delle immagini cult del Padrino cinematografico e di oggetti simbolici ispirati ai vaneggiamenti di un potere senza limiti e senza grazia. Prima di congedarsi dalla vita, Messina Denaro ha dovuto arrendersi a uno Stato che non riconosceva nel suo manifesto politico sicilianista rintracciato in casa della sorella e se ne va senza lasciare eredi riconosciuti: tutti fatti fuori dalle confische e dagli arresti che hanno fatto terra bruciata attorno all’ultimo padrino di Cosa Nostra.

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