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Elvira Seminara: "I nostri segreti sono le parole con cui ci raccontiamo"

«Questa è una storia sull’amicizia, sulla sua forza e sulla sua fragilità ma anche sulla sua necessità, soprattutto oggi in tempi Covid. Amicizia come condivisione, attrito e trasformazione. Tutti i personaggi della storia li mostro mentre li ascolto. Tutti sullo stesso piano: lettori, autrice, Io narrante, personaggi. Per dire: ecco la vita che siamo, e siamo ciò che ci raccontiamo».

Così parla Elvira Seminara, scrittrice siciliana (vive ad Aci Castello) dal respiro europeo, già autrice di molti apprezzati romanzi, dei “Segreti del giovedì sera” (Einaudi, pp. 200, euro 16.50), storia dolceamara di “segreti” di provincia che mette in scena l’amicizia, l’amore, la malattia, il tradimento, le contraddizioni, la ripetitività della quotidianità in una città come Catania, cangiante ma in fondo sempre uguale. Tra atmosfere brancatiane, il racconto si snoda fluido grazie all’uso sapiente di un registro stilistico che usa spesso il comico come reagente.

Tante persone entrano in questa storia, e soprattutto una città, Catania. Come e quando è nato e ha preso vitaquesto romanzo?

«Dalla paura, una specie di febbre. Del tempo che si riduce sotto i piedi. Un sentimento fatto di ansia e di vergogna, di sorpresa e ingiustizia. E quella disperata euforia della vita aumentata. Anche per questo si ride tanto nel romanzo».

Catania, locus animae oppure «talentuosa nel farsi scena» di un romanzo?

«La Sicilia dei miei romanzi ha una latitudine obliqua. Nell’Indecenza” è torbida e dark (fu definito romanzo tropical-gotic); in “Scusate la polvere” c’è una Catania glocal; nella “Penultima fine del mondo” c’è una Sicilia distopica. Questa “Catania dei Segreti” ha una bellezza spesso sgangherata e accidentale, ma è anche un omaggio al mio amato Brancati, al suo cielo basso come un soffitto, alle chiacchiere in via Etnea. Un Brancati messo in scena però da Arcand, con ritmi aggiornati di affabulazione, convulsi e accelerati».

Come nell’“Atlante degli abiti smessi”, pure qui c’è l’attenzione assolutamente puntuale per oggetti e cose.

«La mia passione per la vita delle cose, per dirla con Bodei, è anche una filosofia di vita, una prospettiva che dilata lo sguardo. Mi identifico nel pensiero Zen e nell’antico scintoismo. Ma è un sentimento originario e antico della vita che oggi si fa contemporaneo, nell’ottica del riuso e del riciclo. Siamo sommersi dalle cose, da un mercato invasivo che ci riempie di rifiuti. La collina di scorie, Leonia, del racconto di Calvino, si è moltiplicata in ogni condominio. La cura nel rispetto Zen delle cose conduce invece a consumi e a produzioni sicuramente più mirati. Dunque può renderci tutti più sani e equilibrati, e soprattutto ancora capaci di desiderio».

L’io narrante è Elvira/Elvis. Cosa e quanto c’è di te nel personaggio?

«Ogni cosa che racconto di me, dal luogo in cui vivo alla malattia, alla redazione in cui lavoravo, è vero. Il resto della mia vita resta fuori perché inutile nella storia. Volevo un Io narrante che fosse sostanza reagente, per far parlare gli altri, non per parlare di me. Non riesco più a immaginare un Io Onnisciente, questa voce unitaria e raddensante ormai, secondo me, non regge più. Il nostro presente è frammentato, pulviscolare, il nostro Io non è più padrone in casa sua, come diceva Freud. Ma questo lo spiega meglio Cesare, il filosofo inquieto del gruppo del giovedì».

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