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Se la Baronessa di Carini diventa una sfida narrativa

La scrittrice ragusana Costanza DiQuattro parla del nuovo romanzo (per ragazzi ma non solo). L’antica vicenda s’incrocia col presente d’un gruppo di liceali...

Costanza DiQuattro

Scrivere in fondo è sempre ricominciare. Con un’altra avventura, un’altra sfida. Quella con cui la scrittrice ragusana Costanza DiQuattro, classe ’86, all’attivo già quattro libri, inesausta animatrice del Teatro Donnafugata di famiglia, si rivolge ai giovani lettori col romanzo «La baronessa di Carini. Gita in Sicilia» (Gallucci, collana Young Adult). Lettori che, secondo la “filosofia” editoriale di Carlo Gallucci, sempre alla ricerca di nuovi percorsi, devono imparare, attraverso le storie di finzione, ad allargare lo sguardo sulla complessità del reale passato e presente. Ci volevano dunque una nuova voce e nuove parole che la DiQuattro, con l’entusiasmo che la connota, ha tirato fuori per questa storia di crescita, strutturata in due piani narrativi paralleli che intrecciano, a capitoli alterni, due piani temporali e linguistici che si sviluppano a spirale per poi, alla fine, “incontrarsi”: da una parte il 2023, con un gruppo di adolescenti in procinto di partire per una “gita scolastica” in Sicilia, dall’altra il 1529, quando nel castello di Trabia nasce una bellissima bimba di nome Laura, e il 1563, quando nel castello di Carini Laura viene uccisa.

Tutto dunque inizia da «uno dei momenti più sorprendenti della vita d’uno studente», il viaggio d’istruzione tanto atteso (il primo dopo che la pandemia ha messo in pausa soprattutto le vite dei più giovani), che porta due prime classi liceali da Viterbo a Palermo. Accompagnati dalla professoressa Cannizzaro, dea ex machina di quel viaggio e palermitana d’origine, e dal professor Ughetti, vediamo questo gruppo di adolescenti attraversare in pullman la Calabria e poi lo Stretto di Messina (la Cannizzaro è apertamente contraria al ponte) e arrivare a Palermo. Quel viaggio, in cui insieme all’euforia emergono le fragilità e le insicurezze di ciascuno, sarà indimenticabile, ma per quattro di loro, Ercole o “Cole”, Beatrice, Tommy e Gian Andrea, sarà magico e formativo. Insieme, attraverso un misterioso passaggio del castello di Carini, potranno attraversare il muro del tempo (la DiQuattro, appassionata lettrice di Harry Potter, si è ispirata all’episodio del binario 9 ¾ della King’s Cross Station a Londra), si avvicineranno alla tragica vicenda della baronessa e capiranno i cinici motivi di quel femminicidio, e così supereranno piccole gelosie, pregiudizi e paura di essere inadeguati, e impareranno l’amicizia. Sarà Bea, più matura degli altri e con il coraggio che solo le donne hanno, la più audace in questo viaggio di crescita.

Il romanzo, che ha una bellissima copertina, ideata e realizzata dai carradori di Ibla, che ancora riproducono scene e colori di storie antiche secondo tradizione, «si apre alla speranza – dice la DiQuattro – che sin da ragazzi si capisca che gli uomini si devono approcciare in maniera diversa alle donne. Come capiranno Tommy e Cole».

Dopo «Donnafugata», «Giuditta e il Monsù» e «Arrocco siciliano», ora la Baronessa di Carini. E si cambia registro...

«Ero perplessa quando Carlo Gallucci mi ha proposto di scrivere un romanzo sulla Baronessa di Carini. Come poteva quella storia violenta essere adatta ai ragazzi? Ma poi, di fronte alla sua determinazione non mi sono certamente fatta pregare. E ho pensato a come strutturare il mio romanzo. La parte storica era fondamentale, certamente, ma ci voleva qualcosa che attraesse i ragazzi, che li facesse sentire dentro il racconto, che suscitasse in loro simpatia, nel senso originale del termine, che ne soffrissero insieme».

E hai pensato ai due piani narrativi e temporali.

«Infatti. Ero convinta che l’unico modo di portare i ragazzi dalla nostra parte era metterli dentro la storia con il loro slang, con gli strafalcioni linguistici, con le crisi adolescenziali e la quotidianità della scuola. E quale situazione migliore se non quella del viaggio d’istruzione? Li avrei portati direttamente nei luoghi della baronessa, li avrei messi a confronto con quella storia d’amore e di morte, perché ne prendessero coscienza».

Ovviamente c’era la parte storico-documentaria da raccontare.

«È certo che fu un omicidio studiato a tavolino dal padre e dal marito di Laura Lanza e non per motivi passionali o d’onore, ma brutalmente economici. La storia d’amore di Laura con Ludovico Vernagallo, cugino del marito, durò vent’anni, ebbero anche dei figli, era impossibile che nel ‘500 (ma sarebbe la stessa cosa oggi) non se ne sapesse. Inoltre, in virtù di una legge del tempo, il marito tradito poteva acquisire metà dei beni del rivale se avesse sorpreso in flagrante gli amanti. Pare, inoltre, che il barone La Grua avesse un’altra donna, Ninfa Ruiz, che avrebbe sposato subito dopo la morte di Laura. Insomma, una maniera “sbrigativa” di divorziare senza tante lungaggini. Le fonti sono poco chiare sulla fine di Ludovico, secondo Luigi Natoli, nel suo romanzo “La baronessa di Carini”, Ludovico si rifugiò in un convento senza più uscirne, fatto sta che del suo corpo non si seppe più nulla. Io, tuttavia, pur rispettando i fatti, ho dato una versione più “romantica”, più “digeribile” per i ragazzi, di questa storia terribile. E così Ludovico viene ucciso insieme a Laura».

E andiamo all’oggi, al viaggio d’istruzione che quegli studenti non dimenticheranno.

«La gita scolastica con i suoi riti, ma anche con i suoi luoghi comuni e le sue situazioni prevedibili, era un’occasione che non potevo lasciarmi scappare. Ho un figlio di 14 anni, e così, mentre scrivevo, mi son messa ad ascoltarlo. Mi ha restituito la freschezza delle loro battute, perché i ragazzi sanno essere ironici, avere la risposta veloce e intelligente. Un mondo che mi sono divertita a raccontare e serviva a sdrammatizzare il terribile fatto, senza tuttavia togliergli rilievo. Così mi sono inventata la professoressa Cannizzaro che li porta a Carini, ma anche nella chiesa di Santa Cita a Palermo nella cui cripta il sarcofago senza nome con figura femminile scolpita nel marmo conterrebbe i resti di Laura, come conferma un recente rilievo del Ris di Parma. Pare lo avesse voluto don Cesare Lanza, padre “pentito”».

A parte Laura, le figure femminili sono sicuramente quelle cui hai dato maggiore attenzione.

«Sì, era proprio il mio intento mettere in risalto la figura femminile, a scanso di ogni pregiudizio imposto dalla società odierna, così falsata, che ci vuole far credere a mistificazioni e per tante cose fa passi indietro. Ci sono Laura Lanza e la sorella Caterina sacrificate a biechi calcoli economici, la professoressa Cannizzaro che conduce i ragazzi per mano dritti in quella storia, le mamme dei ragazzi, un universo femminile con il quale i giovanissimi si confrontano spesso in maniera conflittuale. E poi c’è Beatrice, che può diventare metafora e simbolo di Laura».

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