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"L’uomo di zolfo", figlio del Caos. Luigi Pirandello protagonista d’un romanzo-biografia

A colloquio con la scrittrice Silvana La Spina che ne indaga le contraddizioni

E ci voleva una scrittrice, con il coraggio e la sensibilità di una donna, per raccontare l’interiorità, guardare dentro l’uomo Pirandello, con un romanzo, «L’uomo di zolfo» (Bompiani), per il quale Silvana La Spina, siciliana tota anche se nata a Padova da madre veneta e padre siciliano, dice di sentire il carico di responsabilità di misurarsi con un genio la cui bibliografia è smisurata.

«Il romanzo funziona secondo lei?» mi chiede la scrittrice appena iniziamo a conversare. «Sì», le rispondo, perché a me, da lettrice, questo romanzo in cui La Spina si è accostata con audacia e tremore al gigante Pirandello pare un’avventura “fotografica” dello sguardo e dell’intelletto: quasi a fermare luci ed ombre che nella vita come nella produzione tutta di Pirandello stanno in opposizione binaria, a significare apparenza e realtà, conscio e inconscio, sospensione ed epifania, maschera sempre.

«Se Sciascia è stato il padre nobile di tanta letteratura, maestro inesauribile e sempre attuale, l’unico grande a livello mondiale, dopo Dante, è Pirandello, rappresentato per il suo teatro in tutto il mondo – dice La Spina – , e quando il teatro vive tempi di crisi, cosa si fa? Si porta sulla scena sempre e ancora Pirandello. Inizialmente volevo raccontare la storia di due vite eccellenti, due padri geniali, Einstein e Pirandello, a partire dal loro incontro a New York, poi ho lasciato da parte Einstein e mi sono concentrata su Pirandello, ma l’unico modo per parlarne era provare a restituire sulla carta, con la forza del romanzo, quello che ribolliva, magmatico, sotto la crosta di zolfo di questo figlio del Caos».

Un giacimento da esplorare, con gli archivi pieni, i saggi sterminati, il web ricchissimo, perciò ecco la decisione di esplorare l’uomo, razionale e passionale insieme, una delle contraddizioni che hanno segnato la sua vita e quella dei familiari. «Mi sono documentata – continua la scrittrice – avevo iniziato con la famiglia materna, i Ricci Gramitto, artisti e intellettuali, in una Girgenti arretrata, mentre la famiglia di commercianti di Stefano Pirandello conquista il benessere con le zolfare che sorgono dappertutto. Entrambe le famiglie garibaldine, desiderose di agire nella Storia. E Luigi non a caso nasce in questa famiglia risorgimentale medioborghese, coltivando il desiderio di emergere, anche se da piccolo cresce frustato, come se da nato prematuro si portasse per tutta la vita questo segno».

La Spina inizia il suo romanzo-biografia (un genere, dice, prediletto dal mondo anglofono e meno diffuso in Italia), da quando, dopo un flashback sulla nascita, Pirandello ventenne, nel 1887, si ritrova a Roma per studiare e affermarsi come artista. Ha già scritto poesie, testi teatrali, qualche racconto. Certo, non sono come quelli di D’Annunzio, gloria del momento, verso il quale nutre e nutrirà una malcelata invidia, che lo porta a non apprezzare la Roma bizantina dannunziana, né quella umbertina della corruzione ministeriale e degli scandali politici. Ecco, «la smania di gloria, il successo, e il denaro, è ciò che Pirandello ha sempre inseguito – aggiunge La Spina – , la sua mi è sembrata una storia di “fatica” fino alla fine, tormentata e interessante, perciò ho voluto guardare dentro la famiglia, il rapporto tenero con la madre e quello non sempre facile con il padre che non capisce sino in fondo questo figlio “artista”, la sorella Lina che avrebbe voluto diventare una pittrice ma era “fimmina” e dunque “immolata” alle ragioni del matrimonio di convenienza, gli amori incompiuti di Luigi, una certa diffidenza verso le donne che per lui sono maghe, fattucchiere dai cui lacci guardarsi. E poi, dopo la parentesi tedesca (con Jenny, relativo amore del momento) e gli studi di largo respiro che accrescono quella vampa che si chiama Arte, l’unica cosa che veramente lo nutre e lo accende, il matrimonio con il quale “si sistema” con una “picciotta” adatta per lui, la ricca Antonietta Portulano, con la quale ha un rapporto passionale e insieme conflittuale. E quindi i figli, anch’essi con un rapporto complicato con questo padre ingombrante».

Certo, da questo romanzo l’uomo Pirandello, sempre deluso, sempre con troppe ambizioni e ambiguità, dal possibile rapporto amoroso mancato con l’affascinante cugina Vittoria, malmaritata a Roma e che lo introduce nei salotti romani, sino alla storia a senso unico con la giovane Marta Abba, non ne esce proprio bene. Ma a La Spina interessava raccontare il siciliano, con i suoi pregiudizi e il suo genio, la sua inquietudine e la diffidenza verso le scrittrici del tempo (pensiamo, dice La Spina, a quel rancore invidioso verso Grazia Deledda, prima di lui e donna a conquistare il Nobel!), le sue contraddizioni, peraltro fecondissime, teso a inseguire quel senso universale della vita così disperatamente cercato da tutti i personaggi pirandelliani. «Che si impongono non tanto con la narrativa, con quel grottesco che nel tempo del piacere dannunziano respingeva il lettore, ma con il teatro e la capacità del teatro di rappresentare il mondo, riscuotendo il successo sperato ma che non dà quiete all’uomo».

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