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Cacopardo lascia la Sicilia per nuove avventure: una storia tinta di giallo del giudice scrittore

Accantonato Italo Agrò, tocca all’alter ego Domenico Palardo

Il segreto come paradigma familiare e tanto non detto nelle trame della Storia scorrono sui binari di una narrazione che è individuale e collettiva assieme, in continuo rimando tra privato e pubblico. Domenico Cacopardo Crovini, lo scrittore magistrato dalle tante anime culturali e artistiche, torna a parlare di uomini e misfatti, bene e male, nel suo ultimo romanzo «Pas de Sicile. Ritorno a Candora» (Ianieri Edizioni, pp.229, euro 18.00). Un testo che sorprende già dal titolo: un proposito che sembra senza appello. In realtà annuncia lo scritto del cambiamento, del distacco narrativo dalla Sicilia, terra del cuore, per la nuova ambientazione in Val Padana.
Dal mare della Sicilia alle acque del Po il salto è grande, ma funzionale al riconnettersi con le origini emiliane da parte di madre (il padre era siciliano di Messina), e omaggiare la famiglia Crovini (inserita nella firma dell’opera), importante nella formazione del suo pensiero critico. Cacopardo torna quindi all’Emilia della giovinezza, nel paese immaginario di Candora, per affascinare ancora una volta con la sua narrazione puntuale, colta, ironica, densa di colore e aneddoti, che si addentra nel crime senza indugiare in particolari macabri e consegnare piuttosto al lettore l’analisi delle coscienze.
Accantonato Italo Agrò, il ruolo da protagonista passa al magistrato in pensione Domenico Palardo, alter ego dello stesso autore, che da insigne uomo di legge si trasformerà in scrittore detective animato da un’incrollabile passione per la verità. Incaricato dal Comune di Candora (evocativo del candore dei suoi abitanti) di coordinare il volume celebrativo per i cento anni della Costituzione del Comune e di scrivere il saggio di apertura su Siro Sieroni – personaggio che con le sue aziende aveva favorito lo sviluppo fel paese – l’uomo si imbatterà in segreti inconfessabili e vicende irrisolte della famiglia dell’imprenditore, che diverranno spunto per un’indagine serrata, in cui verrà coinvolta l’intera comunità paesana e un figlio illegittimo di Sieroni.
Un giallo a tutti gli effetti, in cui tuttavia l’autore, ricusando i classici stereotipi sul crimine, offre al lettore elementi di giudizio per penetrare i fatti, e andare oltre; superarli, quindi, per approdare infine alla consapevolezza che il passato è sempre dietro l’angolo, in quegli aspetti irrisolti che chiedono verità e compiutezza. Un senso del tempo di bergsoniana memoria attraversa infatti tutto il romanzo, sia in quanto “tempo di vita” dell’autore stesso – che si sdoppia, divenendo interprete e voce narrante assieme – sia in quanto “tempo passato”, della Storia, immodificabile e non più sanabile.
Indagando su colui che dovrebbe omaggiare, Palardo ne apprende l’ignominia e la falsità; ma per smascherarle deve comporre un nuovo puzzle. L’autore si lascia così guidare dal suo tempo interno, “tempo della coscienza”, per assumere dai ricordi di vita in Emilia suggestioni e atmosfere che possano dare carattere ai suoi personaggi, in un progetto narrativo che assieme al bello e al progresso fa emergere il brutto e il decadente, persino l’orrore. Il tuffo nel passato ridisegna infatti i tratti di un’Italia attraversata dalle leggi razziali, grande crimine della Storia; mentre un delitto nella trama dell’oggi fa riemergere antichi rancori nei rapporti della famiglia Sieroni. Due binari paralleli, sui quali il magistrato, assetato di verità e giustizia, comporrà, assieme all’epilogo, la sua sentenza di condanna verso qualsiasi atrocità, dell’individuo e della Storia. Oltre il tempo del suo accadimento e senza appello.

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