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Il lavoro quotidiano di arginare l’inferno secondo il sostituto procuratore in Sicilia Andrea Apollonio

«Se mai mi abituerò a questa quotidiana anatomia di miseria, di istinti, a questo crudo rapporto umano, se comincerò a vederlo nella sua necessità e fatalità, come di un corpo che è così fatto e diverso non può essere, avrò perduto quel sentimento, speranza e altro, che credo sia in me la parte migliore». Così pensa, con le parole del suo amato Sciascia di «Cronache scolastiche», il sostituto procuratore Salvatori, protagonista di «L’inferno non prevarrà» (Rubbettino) di Andrea Apollonio, pugliese e sostituto procuratore in Sicilia, al suo secondo romanzo dopo «L’arte borghese della guerra proletaria» (Rubbettino 2018), e già autore di numerosi saggi sulle mafie (tra i quali «Storia della sacra corona unita» e «I pascoli di carta», entrambi per Rubbettino).
«Credere che il male possa cessare è una pretesa del tutto irragionevole», lo sa bene Salvatori, sa che in quella zona “resinosa” in cui opera, la Sicilia nebroidea, prolifica e si arricchisce la “mafia dei pascoli” (unico riferimento utile, come si legge nelle avvertenze del romanzo, in una storia in cui ogni riferimento a fatti, cose o persone, è puramente casuale), eppure sente tutto il peso angosciante di essere impotente di fronte a una realtà conclamata: la borghesia mafiosa, il cuore nero della mafia. Perché lui alla “zona grigia” non crede, «è solo il nome che diamo, senza saperlo, alla nostra incapacità di discernere tra bene e male». Ed è vittima del male quella donna smunta e smagrita che nell’incipit del romanzo si presenta davanti a lui dopo essere stata convocata dai carabinieri: gli ematomi su braccia e guance parlano chiaro, ma lei, vedova, che “campa” di una pensioncina sola con il figlio con problemi psichici, non parla, non intende certo denunciare suo figlio. E Salvatori, padre da poco, nel congedarla ha uno struggimento, travolto com’è da un’umanità dolente incapace di badare a sé stessa, da situazioni familiari troppo complesse per essere descritte in un verbale, in un atto istruttorio.
Però non vuole annegare nel «mare dell’oggettività» (stavolta è il “suo” Calvino di «Un mare di oggettività»), e di fronte ad altro male, reiterato con l’arroganza dei potenti, non può far scorrere il flusso ininterrotto di ciò che esiste e subirlo passivamente. Perciò, quando scompare un allevatore, e un funzionario comunale precipita dal quarto piano di un albergo diretto da una suora, l’algida madre Berenice (altro omaggio di Apollonio allo Sciascia di «Todomodo»), sorella del procuratore generale Ficarra, deceduto nel suo letto qualche giorno prima, Salvatori capisce che quei fatti apparentemente slegati tra loro compongono un unico mosaico del male in cui convergono gli interessi della “mafia dei pascoli” e connivenze di potenti personaggi tra i quali il defunto Ficarra.
Ma il sistema occulto e colluso non può essere facilmente smantellato, ci sono ombre di delitti sui quali non si può nemmeno avviare un’indagine, bisogna accontentarsi di qualche vittoria dello Stato su alcune persone; il male, come gli ha detto madre Berenice, non può distinguersi dal bene. Tuttavia, nonostante sia tentato di andare via, Salvatori continua a fare il suo lavoro, fino a «quando rimane, tra mille, una sola possibilità di fare giustizia».

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