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Non il terremoto, ma la rinascita: dialogo con Costanza DiQuattro

A colloquio con la scrittrice siciliana (che martedì sarà a Messina). Il suo ultimo romanzo, «L’ira di Dio», racconta una vicenda di passioni e ribellioni nei giorni del rovinoso sisma che l’11 gennaio 1693 distrusse il Val di Noto

Siciliana, anzi sicilianissima, romanziera e drammaturga, con un amore per la musica e il teatro (dirige dal 2008 quello di Donnafugata) e per le dimore storiche, come la sua (conduce infatti per Rai1 la rubrica «Dimore nella storia»). E un amore ancora più profondo per la sua terra, che le suggerisce, un anno dopo l’altro, una suggestione dopo l’altra, storie e figure che poi diventano romanzi o testi teatrali (o tutti e due: «Arrocco siciliano» ha appena debuttato sul palcoscenico). Costanza DiQuattro, ragusana, classe 1986, ha appena pubblicato il suo sesto libro, «L’ira di Dio» (Baldini + Castoldi), proposto al prossimo premio Strega da Roberto Barbolini. Il romanzo è ambientato al tempo del rovinoso terremoto dell’11 gennaio 1693 che distrusse il Val di Noto: dopo una serie di storie ottocentesche, stavolta è quel mondo che crolla e, caparbio, si rifà ad attirare la scrittura di Costanza DiQuattro, sempre calda e impastata di suoni, dove l’amatissima Ibla, luogo dell’anima, più che scenario è quasi un personaggio. Nei suoi vicoli, tra le sue piazze si muove un’umanità aspra e tormentata, dominata dai signorotti locali e da una Chiesa che ha molte facce, ma non tutte dispotiche: i lampi d’umanità e bellezza sono sempre le svolte nelle storie di DiQuattro, per quanto dolore mettano in scena. E come sempre c’è una ribellione, una scelta divergente che apre una fessura nei mondi: il personaggio principale qui è un ossimoro, il prete peccatore Bernardo, il cui peccato è un eccesso d’amore. E chissà se l’ “ira di Dio” ci colpisce quando di amore ce n’è troppo, o quando ce n’è troppo poco... Ne abbiamo parlato con l’Autrice (che martedì alle 18 sarà a Messina, alla libreria Bonanzinga, per incontrare lettrici e lettori).

L’ira di dio è davvero ira di Dio o è un altro nome delle nostre paure e delle nostre impotenze?

«Io non credo che l'ira di Dio sia veramente ira di Dio, perché non credo che il nostro sia un Dio iracondo: credo che sia un Dio dell'amore, della pace, del perdono, della Grazia. Esattamente l'opposto d’una visione veterotestamentaria. E quindi l'ira di Dio è in verità un modo forse per nasconderci dietro le nostre paure. In quel periodo, siamo nel 1693, al pari di oggi, dare una sorta di responsabilità all'ignoto, come in questo caso a Dio, diventa un modo per sottrarsi anche alle proprie responsabilità».

E qual è invece la nostra potenza? Nei tuoi romanzi per quanto possano essere sventurati i destini e opprimente il contesto, si liberano sempre luci nascoste...

«Credo che questa sia un po' una costante dei miei romanzi: la nostra potenza sta secondo me nella capacità di rialzarsi. La capacità di Giuditta di strappare la lettera nel momento in cui capisce che non c'è più niente da fare rispetto al suo grande amore; la forza di volontà di Antonio Fusco di mollare tutto e andarsene; la forza di Bernardo, in questo romanzo, di ricominciare. Sebbene Bernardo sia un agostiniano e io avrei potuto scivolare sul terreno viscido della santificazione di quest'uomo e della sua redenzione immediata. In verità Bernardo è un umanista, non si redime mai del tutto però ha la forza di scorgere nella bellezza un'altra forma, un'altra visione di Dio. Tutti i protagonisti dei miei libri sono avviliti dal dubbio, dal senso di colpa, schiacciati dai propri errori, però hanno tutti in qualche modo la capacità di non abbandonarsi alla disperazione. Poi anche questo è legato alla nostra fede: io faccio dire al priore del convento dei Padri Cappuccini, rivolgendosi a Bernardo, “dubitate pure ma non disperate”».

Padre Bernardo è un protagonista potente: un’anima ribelle ma sofferente, un peccatore appassionato, ma che ama soprattutto quello che i miopi, i bigotti, i senza amore chiamano “peccato”, e che non mortifica mai la sua umanità, nemmeno nei momenti più bui. Su di lui le convenzioni sociali, di casta, di censo agiscono in modo spietato, ma lui tenta una ribellione che per quanto autolesionista produce dei frutti. I tuoi personaggi spesso sono “outsider”, e a loro è affidato l’immane compito di non farsi schiacciare dal mondo. Bernardo vince o perde la sua lotta?

«In fin dei conti Bernardo vince la sua lotta perché alla fine della sua vita riesce a comprendere che in qualche modo il suo percorso terreno ha avuto un senso. Anche se c'è una lunga fase in cui crede che nessuno sia in grado di capire questa sua innata ribellione, la sua voglia di sovvertire certi ordini precostituiti. Fino a credere di non essere stato capito neanche da Dio: crede di essere stato abbandonato da Dio. Lui si sente un peccatore ma fino a un certo punto: effettivamente lui ama il suo peccato. Penso al buon Verga quando nella “Storia di una capinera” fa dire quella frase meravigliosa a Maria: io amo il mio peccato. Ma Bernardo è un umanista, per lui l’uomo è centro dell'universo e misura di tutte le cose: lui pone veramente al centro di tutto l’uomo, non solo se stesso ma qualsiasi essere umano che gli sta accanto . Lui ama la variegata umanità anche nei suoi controsensi, nei dolori che questa umanità provoca. Ci sono molti aspetti dicotomici in quest'uomo, legati proprio al fatto che lui, uomo del suo tempo, è stato indottrinato a pensarsi peccatore ma dentro di sé non riesce a capire davvero perché. A un certo punto gli faccio dire una frase che ho amato molto: parlando di Dio dice “io non lo so se ho veramente creduto in lui però oggi mi rendo conto che forse lui ha creduto in me”. Questo significa aver vinto con la vita».

Si ha spesso, nelle tue storie, la sensazione che siano i luoghi a custodirle e poi liberarle. E questo va oltre la dettagliata documentazione storica (che s’intuisce profonda): ha più a che fare con l’amore. La Ibla distrutta dal terremoto è un luogo dell’anima, è un personaggio tra gli altri.

«Ibla è veramente il centro del mio universo. Del resto il mondo è tondo e quindi il centro dell'universo può essere ovunque... Io dico spesso che credo sia un’eterotopia. Un luogo altro. Che ha anche nella vicenda del terremoto una storia diversa da tutto il resto del Val di Noto che è stato distrutto. È una città che a differenza di altre, come Noto Avola o Ragusa Superiore, decide ostinatamente, ribellandosi a tutti, di ricostruire in situ e quindi c'è questa “follia” urbanistica di una città che ha un impianto medievale e un’architettura tardo barocca. Davvero un fuoco d'artificio, un’esplosione di nonsense. Poi essendo il mio luogo dell'anima io riesco a trarre da Ibla tutte le emozioni: lo faccio spesso, m’inerpico tra i vicoli e le scale, vado giro, da flâneur, e mi godo tutto ed è come se mi si palesassero tutte queste storie, tutte queste immagini. Io le “vedo”. A volte basta un niente. Un professore di storia, durante le celebrazioni per l’11 gennaio, ha parlato della precisa richiesta da parte delle autorità di “delazione”: venne chiesto di denunciare chiunque affinché si potesse appunto “epurare” questo peccato. In un documento si parlava di un padre Antonino fustigato sulla pubblica piazza per la relazione con la sua perpetua, da cui era nato un figlio. Ecco, a me è balenata la storia di Bernardo. E mi sembra di vederlo con la sua tonaca che scende tra le strade di Ibla...».

La Sicilia ha conosciuto devastazioni enormi, il terremoto che tu racconti fu una delle più gravi e profonde. Ma forse tu racconti soprattutto la capacità di rinascere, caparbia: vale per i singoli destini, vale per la collettività. È una metafora, ma faremmo un torto a definirla soltanto così. È la storia sentimentale della Sicilia e forse del Sud?

«È un dato di fatto che il terremoto del 1693, il più devastante della storia d’Europa, ci abbia lasciato, come un paradossale dono, uno dei siti Unesco più grandi e più importanti del mondo: tutto il tardo barocco del Val di Noto. Quella parola tanto abusata, resilienza, ha origine proprio lì. La Sicilia dà una grande prova: non si piange addosso ma ricostruisce. Con maestranze locali, con architetti e capomastri locali. C'è solo un forestiero, ma nemmeno tanto, che è il Duca di Camastra, inviato dal Viceré. Quindi il terremoto è sicuramente metafora della capacità della Sicilia, un po' come un'araba fenice, di rinascere, sapersi rimboccare le maniche e riprendersi. È storia sentimentale di questa terra, è il legame che questa terra ha coi suoi figli: talvolta noi tendenzialmente siamo lamentosi, la consideriamo una terra matrigna che fa scappare i suoi figli, ma appena veniamo sradicati sentiamo un dolore lacerante, e desideriamo tornare, come raccontano le storie di moltissimi. Io sono una che non se ne è andata, e se me ne vado anche per 24 ore soffro. Però capisco quelli che se ne vanno e poi sperano di morire qui: una visione così sentimentale e in qualche modo religiosa di questa terra».

Infine, la lingua: le incursioni nel dialetto, che contraddistingue i personaggi più umili, e colora l’eloquio di tutti. Che parte del paesaggio è, la lingua?

«La lingua è musica e musica e colore sono anche sfumature così sottili delle quali non si può fare a meno. Io ho studiato musica quindi forse sono anche un po' condizionata da questo però un testo di letteratura segue una metrica: quando scrivo rileggo e quello che veramente ascolto è la musicalità della pagina. Quindi le inserzioni dialettali a volte sono quasi una necessità. Oltre al fatto che ci sono cose che non si potrebbero rendere se non in siciliano... Io ormai mi sono resa conto, anche grazie al fenomeno Montalbano, di questa rinascita meravigliosa del siciliano. Poi in questo romanzo Bernardo fa parte di un ceto sociale elevato, lui il siciliano lo parla poco; c'è invece tutto il popolo che ruota intorno a lui, compresa la donna che lui ama, che non sa parlare se non in siciliano. Quando lo inserisco è proprio una mia esigenza musicale».

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