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Premio Strega, nella carne viva delle narrazioni: di nuovo in Sicilia la prima tappa del tour dei finalisti

Memoir e storia, cronaca e autobiografia, genealogia di sé e del linguaggio: tutte le voci del romanzo attraverso gli scrittori che hanno cominciato il loro viaggio ospiti del Catania Book Festival

L’ha detto l’ultimo della fila, nell’arbitrio universale dell’ordine alfabetico secondo cui erano schierati, nella loro prima uscita pubblica da dodicina dello Strega, il plotone per eccellenza della letteratura italiana. L’ha detto Dario Voltolini: «Le storie attraversano la carne». Parlava della sua storia, valeva per tutte e tutti, forse vale sempre. Certamente per noi che eravamo accorsi a salutare quest’esordio dello Strega Tour, per la seconda volta di seguito ospitato in Sicilia, a Catania (stavolta nella perfetta bellezza dell’ex Monastero dei benedettini), grazie alla caparbietà di Simone Dei Pieri, giovane ideatore e organizzatore (aiutato da un giovanissimo team) del Catania Book Festival, la cui magnifica ossessione è sempre quella: non creare “eventi” letterari ma costruire comunità di lettori.

Lo ha detto, semplice, nel breve discorso introduttivo (dopo i saluti della direttrice Disum, Marina Paino, per l’Università di Catania; di Giuseppe D’Ippolito per la Fondazione Federico II- Regione Siciliana; dell’assessore comunale alla Pubblica istruzione Andrea Guzzardi; di Valerio Valzelli per Bper Banca, sponsor nazionale del Premio), che ha saltato le smancerie per dare i numeri veri: quelli delle biblioteche chiuse o inagibili, quelli dell’abbandono scolastico, quelli dei lettori zero: chi negli ultimi 12 mesi non ha letto nemmeno un libro. Noi eravamo lì, popolo di lettori e scrittori, e avremmo potuto ben essere l’ennesimo “evento” (il pensiero corre, inevitabilmente, a rassegne e festivalini autorefenziali lautamente finanziati e pubblicizzati...), di quelli dove gli scrittori invitati vengono esibiti come medaglie, e invece – come ha detto Dei Pieri – si trattava d’essere «una comunità libera d’immaginare un finale diverso». Una comunità che fa crescere lettori, e guarda al “dopo” degli incontri e degli applausi.

Carne viva, anche quella. Attraversata, lacerata se è il caso, dalle storie, ma anche infinitamente riparata dal potere delle storie: è il caso della storia, lacerante, curativa, di «Dalla stessa parte mi troverai» (SEM, proposto da Franco Di Mare) di Valentina Mira – proprio la giovane autrice di recente sotto attacco da esponenti di destra che non le hanno perdonato d’aver messo in atto una contronarrazione che «smonta mitologie vittimiste ed egualitarie». Mira, che ha rivendicato «di non aver scritto un libro contro, ma un libro con», ha indicato, lì nel pubblico, Rossella, la vedova del suo protagonista, Mario Scrocca, vittima dimenticata, accusato d’aver preso parte al duplice omicidio di Acca Larentia e morto d’una morte ancora inspiegabile, ancora insopportabile, in carcere. Carne fatta storia, storia che ridiventa presenza, testimonianza, carne.

Mai come quest’anno, forse, la storia, la grande storia di eroi e artisti, la brutta storia della cronaca nera, la storia che si fa autobiografia (o viceversa), s’è incarnata nelle storie, nelle voci della rosa (i nomi della rosa) dei Dodici (ma in realtà undici: Paolo Di Paolo non è potuto intervenire), che hanno conversato con due scrittori siciliani giovani ma di sicuro talento, bravissimi nel toccare i punti sensibili nella “carne” dei romanzi: Lorena Spampinato e Mattia Insolia.

La storia d’una artista formidabile, che forse avremmo perso, se Adrián N. Bravi, argentino, non avesse incontrato in Italia, a Recanati, Adelaida Gigli, italiana e argentina, a cui ha dedicato l’intenso «Adelaida» (Nutrimenti, proposto da Romana Petri): artista, attivista, poeta, crudelmente colpita dalla dittatura, lei «concepiva la bellezza come una ferita aperta, e ci stava attorno». La bellezza è ferita, la bellezza è balsamo.

La storia d’un imperatore bizantino, l’affascinante e crudele Giovanni Zimisce: Sonia Aggio ci ha portati da lui, «Nella stanza dell’imperatore» (Fazi, proposto da Simona Cives) per «ricostruirne la mente, l’umanità», attraverso battaglie e congiure, tradimenti e persino stregonerie, ripercorrerne soprattutto l’ombra, perché i fatti, i nudi fatti, sono assieme manifestazione e nascondiglio degli uomini, e la letteratura deve raggiungerli, scovarli, rifarli umani.

«Umano», d’altronde, è l’aggettivo-spia che compare in ben due titoli: il «Romanzo senza umani» (Feltrinelli, proposto da Gianni Amelio) di Paolo Di Paolo, storia di glaciazioni, sia di luoghi che di anime, ché il modo in cui macro e microclima, macro e microcosmo s’influenzano è affare – tutto umano – della letteratura.

Come «umana» è la storia d’un altro flagello, questa volta contemporaneo: la xylella, il batterio che ha sterminato finora qualcosa come 21 milioni di ulivi (alberi-simbolo, alberi-storia, alberi-carne): con passione Daniele Rielli in «Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale» (Rizzoli, proposto da Antonio Pascale), ha trasformato in romanzo la storia d’un dramma ecologico e sociale: cosa c’è di più umano, dopotutto, del «negazionismo» e della «caccia alle streghe»? Anche qui una narrazione per smascherare le narrazioni, smontarle. Umano, troppo umano.

E un altro batterio covava nella carne d’una storia: in «Invernale» (La nave di Teseo, proposto da Sandro Veronesi), Dario Voltolini racconta del padre, macellaio e in qualche modo custode d’una soglia – quel suo affondare le mani nelle carni, prepararle per gli altri che non vogliono sapere di sangue e di lame – e tradito, ferito dal suo stesso sapere d’artigiano-sacerdote. Il batterio gl’infetta le carni, diventa – molti anni dopo – storia narrata dal figlio: «Non so se è memoir – riflette l’autore – forse è testimonianza».

Già, dov’è il confine tra ciò che ti accade, nella carne, e ciò che diventa racconto? E poi, dopo, tutto può diventare racconto? Lo abbiamo sentito, dolorosamente, nelle parole di Antonella Lattanzi, nel suo titolo che è un’antifrasi: «Cose che non si raccontano» (Einaudi, proposto da Valeria Parrella). Forse «la letteratura è fatta tutta di cose che non si raccontano», cose dolorose come la paura d’essere madre (sì, può stare anche annodata al desiderio di esserlo...), l’aborto, la violenza ostetrica. E oggi, nei giorni che stiamo vivendo, ha strappato un lungo applauso la fermezza con cui ha ricordato «quanto sia fondamentale il diritto all’aborto» legale e sicuro, l’importanza di dare una voce a «corpi medicalizzati, ridotti al silenzio». Perché se «dalla disperazione non nasce niente, dalla rabbia può nascere un romanzo».

Ma c’è anche un modo d’inventarsela altrimenti, la nostra stessa storia: in «Storia dei miei soldi» (Bompiani, proposto da Nadia Terranova), la catanese Melissa Panarello – che ieri in qualche modo è tornata alla “sua” Catania, nello stesso luogo della sua prima, remotissima, presentazione – ha intrapreso un «viaggio doloroso e furioso» nella sua storia, con un’altra sé, Clara, l’attrice che la interpretò nella trasposizione cinematografica del primo, fortunato, scandaloso romanzo. Che verità scomoda ha voluto enunciare a voce alta (ché i romanzi sono tutte verità a voce alta): «I soldi, proprio quelli che sono un tabù, come il sesso, perché hanno a che fare con la materia, rivelano quello che sei, raccontano la tua storia».

Ma l’autobiografia è anche rapporto con chi viene prima, un rapporto che è forgiato dal, col linguaggio: non è forse chiaro a ciascuno di noi, dopo Natalia Ginzburg, quanto siamo fatti, e disfatti, del nostro «lessico familiare»? Tommaso Giartosio s’inventa l’«Autobiogrammatica» (minimum fax, proposto da Emanuele Trevi): la vita come atlante del linguaggio (e viceversa), il suo modellare la realtà e venirne modellato, con tutto il suo retaggio «d’accoglienza e di conflitto» nel rapporto coi nostri genitori (nel primo luogo della parola: la famiglia).

E le generazioni sono il rovello: una catena di carne e di linguaggi, di retaggi e sentimenti e dolori. Un nuovo capitolo ne ha scritto Donatella Di Pietrantonio ne «L'età fragile» (Einaudi, proposto da Vittorio Lingiardi): il dialogo faticoso, talora impossibile, fra tre generazioni diverse, e ciascuna ha la sua fragilità, «ma più fragile è chi non nomina la propria fragilità», e si sforza d’ammortizzare, di chetare, di riparare. Ma ci sono cose oscure e remote che chiedono, invece, forza e parola. E s’affaccia il tema, potente, della violenza di genere, una violenza che torna dal passato (anche qui una storia reale, dimenticata, che torna a farsi carne).

Ma non crediate che solo il dolore abbia diritto di parola: ha rivendicato un «diritto all’inquietudine», parlando per la protagonista del suo «Chi dice e chi tace» (Sellerio, proposto da Matteo Motolese) Chiara Valerio, che, nel suo modo esplosivo, ha citato il noto «principio di esplosione» logica, «ex falso quodlibet», perché «la bellezza della menzogna è che non può essere contraddetta da chi ci vuole bene». E così la sua protagonista, Lea, donna altrimenti felice, sceglie l’inquietudine d’un’indagine su una morte che le sembra assurda, rivoluzionando ogni sistema metrico affettivo e ogni rendita di posizione.

E allora la parola finale non può che essere risanare, curare: fin dal titolo, «Aggiustare l’universo» (Mondadori, proposto da Lia Levi) di Raffaella Romagnolo è la storia di un’umanità da riparare, quella della scolara Francesca, che una volta si chiamava Ester, nell’Italia del dopoguerra dove le macerie non sono solo fisiche e la scuola – siamo nel 1945, è il primo anno scolastico dopo la guerra – «è la risposta» (come oggi, e lo sappiamo bene, dice l’autrice, dopo avere vissuto la pandemia). L’insegnante Gilla forse potrà salvare Francesca, ridarle Ester.

Non lo chiediamo, forse, sempre, a tutti i libri: raccontaci, salvaci?

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