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Mascalucia, vaccinato a 104 anni. La storia rocambolesca di Antonio Bonajuto

Ha attraversato la “Spagnola” e le due guerre mondiali: “Sono rassegnato alla scienza”

Quando è stato vaccinato, tra i primi in Sicilia, ha sorpreso i sanitari del Policlinico di Catania non soltanto per la sua età ma anche per la lucida consapevolezza di stare facendo ciò che era giusto per sé e per gli altri.
Nato a Catania il 13 ottobre 1916, e vissuto tra il capoluogo etneo e Mascalucia, Antonio Bonajuto, che nel frattempo ha ricevuto anche la seconda dose del vaccino senza alcun effetto indesiderato, si dice felicemente «rassegnato alla scienza». E c’è da credergli se ha superato il secolo già da più di quattro anni. Piccolissimo, ha affrontato in prima persona la “Spagnola”, la prima grande pandemia del ‘900. «Ero bambino, ma ricordo che si stava tutti chiusi in casa, c’era paura del contagio». Durante la Prima guerra mondiale, il padre, ufficiale, era stato incaricato della difesa costiera della Sicilia e tutta la famiglia si era trasferita in un paesino dell’agrigentino: «Stavo con mia mamma, la mia balia e i miei fratelli più grandi, Dorotea e Mario; mio padre ci raggiungeva la sera, quando poteva, e stavamo insieme».

Ma i ricordi di famiglia si spingono anche più indietro, sino all’impresa dei Mille e allo sbarco di Garibaldi in Sicilia. «Anche i miei genitori erano convinti della necessità di fare un’Italia unica, ma è sempre rimasto in noi il senso della sicilianità, spirito che non ho mai perso, anche se vedo che ormai siamo in pochi a mantenerlo. Io, ad esempio, pur andando d’accordo con i lombardi, mi sono sempre considerato profondamente diverso da loro». Da bambino, la casa di via Etnea a Catania si affacciava su un bar dove Bonajuto ricorda pure di avere visto più volte Giovanni Verga, «una delle nostre medaglie». «Salutava sempre mia madre (Emanuela Sapuppo, figlia del conte Antonio Sapuppo Asmundo, più volte sindaco di Catania, ndr) ma era molto altezzoso e non dava confidenza facilmente». Quando gli si chiede come ha vissuto gli anni del fascismo, risponde serenamente: «Fino a quando ero incosciente, bene. Da giovane ero un “fascista arrabbiato”. Da balilla, a Mascalucia giocavamo a mettere in prigione chi non si dichiarava fascista. Poi mi sono calmato, ma ho comunque continuato a essere ubbidente al Duce. Ho sopportato con fatica l’alleanza con i tedeschi. Dopo la guerra, quando finalmente ho potuto svestire la divisa, mi sono sentito finalmente italiano a tutti gli effetti».

Nei giorni dell’armistizio del ’43, Bonajuto svolgeva il servizio militare con i tedeschi in Alto Adige. «Ci fu chiesto di decidere e noi preferimmo seguire la scelta del nostro paese. Ci caricarono sui vagoni bestiame e ci trasferirono in Polonia come prigionieri. Fu lì che conobbi anche Guareschi, un simpaticone. Verso la fine della guerra, fui portato in un paesino a nord-est della Germania e tenuto in stato di semilibertà. Poi riuscii ad arrivare a Bologna e da lì, in modo rocambolesco, a tornare in Sicilia, con la divisa da prigioniero». A partire dal dopoguerra, Bonajuto si è sempre dedicato alla terra. Dopo essersi laureato in Giurisprudenza all’Università di Catania, ha lavorato come imprenditore agricolo, curando le proprietà di famiglia nella piana catanese. «La Sicilia non la vedo in forma, ma c’è sempre da essere speranzosi per il futuro». E sulla pandemia ancora in corso, lui, che per sé sceglie l’acuta definizione de «il sopravvissuto», ha le idee chiare: «Sopportare e vaccinarsi».

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