Questo sito contribuisce all’audience di Quotidiano Nazionale

Il messinese Nicola Catanese caposcorta di Borsellino: "Cambiai turno: salvo per un testa o croce"

Trent'anni e un numero di processi di cui è difficile tenere il conto. Borsellino 1, bis, ter, quater, un giudizio di revisione per rimediare a sette ergastoli inflitti ingiustamente, poi l’atto d’accusa contro quello che è stato definito «il depistaggio più grave della storia repubblicana» e infine il giudizio, ancora in corso in secondo grado, a carico dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra: il boss Matteo Messina Denaro. Senza contare gli appelli e le pronunce della Cassazione. Decine di sentenze che hanno chiarito certamente il ruolo della mafia nell’attentato al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta, ma che lasciano ancora senza risposta tanti interrogativi: dalle responsabilità esterne a Cosa nostra, alla sorte dell’agenda rossa, il diario sul quale il giudice scriveva i suoi segreti, sparita nel nulla, fino ai nomi degli autori del depistaggio delle indagini sull'eccidio di quella indimenticabile domenica del 19 luglio 1992. Quel giorno in via d'Amelio, insieme con Paolo Borsellino, persero la vita gli agenti di scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.

E si interroga ancora su una delle vicende più intricate e misteriose legate alla mafia siciliana, l’assistente capo messinese Nicola Francesco Catanese, 59 anni, in servizio da 36, che fu uno dei capi scorta di Paolo Borsellino, e scampò alla strage di via d’Amelio perché quel giorno fu di turno la mattina, e si salvò da quella tragica fine che toccò ai colleghi che quel 19 luglio gli diedero il cambio. «Credo molto nel destino e, probabilmente, era scritto che quel giorno non dovevo essere io a morire» ha raccontato qualche anno fa alla Gazzetta de Sud. La figura del giudice Borsellino è rimasta però impressa nei suoi ricordi, e d’altronde non potrebbe essere altrimenti: «Era una persona molto umile, pacata, tranquilla. Sapeva quel che faceva e svolgeva il suo lavoro con professionalità, ma soprattutto ci voleva bene come se fossimo figli suoi, e si metteva sempre a nostra disposizione. Proteggerlo era il nostro lavoro, ma si può dire che lui facesse lo stesso con noi».

«Da qualche giorno – ha raccontato Nicola Catanese in questi giorni al Corriere della Sera - lo vedevo nervoso e più preoccupato del solito, così il lunedì precedente la strage gli chiesi se ci fosse qualcosa che non andava. Borsellino mi rispose “Sono dispiaciuto per voi”. Domandai perché e lui aggiunse: “Perché so che è arrivato l’esplosivo destinato a me, e mi dà angoscia pensare che possano colpire anche voi”.

Alla vigilia della strage, Catanese voleva tornare a casa per festeggiare il compleanno della futura moglie, nata il 20 luglio, e che viveva a Messina come lui. Ma decidere chi dovesse essere di turno quel giorno fu il lancio della monetina, testa o croce. “Uscì croce – spiega Catanese al Corsera - e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?”.

Rientrato in caserma a Palermo, Catanese si cambiò e partì per Messina. Arrivato a casa in riva allo Stretto, trovò la madre in lacrime che gli gettò le braccia al collo: «Non capivo perché, e mio padre mi indicò il televisore con le immagini della strage; si sapeva che c’erano dei poliziotti morti e pensavano che io fossi tra loro. Rimasi a lungo immobile davanti alla tv - racconta ancora al Corriere - piansi anch’io. E a Sofia, la donna che poi diventò mia moglie dissi: “Sono vivo grazie a te”. Perché è andata proprio così».

 

Caricamento commenti

Commenta la notizia