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La tragedia, arte totale che ci rende comunità

La sua “Coefore-Eumenidi” aprirà la stagione dell’Inda

Il sole, il potere, è piombato sulla terra. Ed è imploso. Ha distrutto tutto. Restano dei pezzi di un sistema che, come ambientazione, ricorda gli anni 40. È il crollo di un regime. Ma è un riferimento, un pretesto che Davide Livermore utilizza per raccontare le sue Coefore-Eumenidi. Partendo dalla fine di Agamennone. Il regista torinese aprirà il 3 luglio prossimo con la tragedia di Eschilo, nella traduzione di Walter Lapini, la 56esima stagione al teatro greco di Siracusa. Lo spettacolo si alternerà con Baccanti di Euripide diretta da Carlus Padrissa.
Livermore ricomincia da dove ci eravamo lasciati. Prima della pandemia, stagione 2019, aveva ottenuto il record di incassi per la Fondazione Istituto nazionale del dramma antico con la sua Elena che aveva aperto il ciclo dell’Orestea.
«Dopo Elena c’è stata la fine del mondo – spiega il regista – . Per me è stato un momento straordinario, perché non è stato ordinario ma enormemente importante. Abbiamo fatto vedere quanto valore abbiamo, quante cose diamo per scontate. È ancora bello poter sentire quanta voglia di teatro e quanta voglia di bellezza ci sono».
La bellezza è da sempre uno dei punti fermi del regista, chiamato per il quarto anno consecutivo ad aprire la stagione alla Scala di Milano. Quest’anno sarà Macbeth di Giuseppe Verdi.
«Ad un certo punto si è scoperto che forse la priorità non è la Serie A, la priorità non possono essere i calciatori. Io faccio il tifo, vado in curva, sono del Toro e mi dipingo la faccia di granata. So tutte le formazioni a memoria del Torino dal 1927 ad oggi, ma so a memoria anche Euripide, Eschilo e Sofocle. Lo spettacolo non è sport, sono cose diverse. Lo spettacolo è bellezza, è arte, comunità. Le storie sappiamo quali sono e le vogliamo rivivere».
Diventa naturale farlo nel luogo per eccellenza.
«Lo spettacolo riguarda questo luogo, il teatro greco. La tragedia è una forma d’arte totale, globale. Che ci rende comunità. Ci crea una catarsi che fa in modo che noi non viviamo un intrattenimento, ma un rapporto diretto con testi che ci parlano e ci entrano dentro e ci danno la possibilità di comprendere cose profonde della nostra vita».
Ed allora "Coefore-Eumenidi" diventa un processo “farsa” che assolve un assassino, Oreste, colpevole della morte di sua madre, Clitennestra. Che a sua volta è una bugiarda.
«L’importante è credere nel testo che abbiamo e servirlo con tutta la nostra arte. Io devo servire quella drammaturgia, non mettere in scena quello che mi piace».
Nel 2019 Elena, quest’anno Coefore-Eumenidi, ed il prossimo anno Agamennone. Ha deciso di non andare più via da Siracusa... 
«A Siracusa mi trovo benissimo, è un posto bellissimo dove fare teatro. È una delle eccellenze di questa Nazione. Il posto in cui l’Italia deve sentirsi di essere orgogliosa. Lo si vive qui, alla Scala di Milano, al Rossini opera festival. Sono luoghi che sono eccellenze inarrivabili nel mondo».
Orestea: un’unica storia in tre episodi.
«Partiamo dal secondo e dal terzo (come vedere "L’Impero colpisce ancora" senza aver visto il primo). Racconto scenograficamente quella che è la fine di Agamennone. È un mondo in cui un sole, quindi un potere, è piombato sulla Terra. Ed è imploso su se stesso. E ha distrutto se stesso. A me piace avvicinare le storie e mi sono chiesto quando è successo, quando è capitato nella storia che un padre distrugge il proprio sistema di potere sacrificando la figlia. E noi lo abbiamo: è qualcosa di così struggente. Lo abbiamo vissuto, questo episodio di Agamennone. Vittorio Emanuele III ha sacrificato sua figlia. Non è andata a reclamarla a Buchenwald. Mafalda di Savoia è morta in un campo di sterminio. Ed è stata lasciata morire. Pensiamo che la Repubblica sia nata da un referendum. La fine di un sistema monarchico e la fine di una casata che era la casata regnante più antica del mondo. Ma se Vittorio Emanuele III avesse richiesto sua figlia, noi non lo avremmo mantenuto come re? Penso di si. Avrebbe fatto una cosa da re. Agamennone ha sacrificato la figlia».
Saremo trasportati negli anni 40?
«Ci è piaciuto portarci in quel tempo storico. Abbiamo scoperto che ci sono altre fini dei mondi. Noi partiamo con Coefore dalla fine del mondo e l’abbiamo portata più vicino attraverso quel contesto: siamo nel 1936 quando è stata messa in scena una Orestea a Berlino per i giochi olimpici. In quell’Orestea era stata fatta una manipolazione del simbolo del sole, una svastica ruotata, ma non ci sarà nulla di tutto questo. Quando parlo di 1936 io parlo di un coté estetico. Avremo come riferimento preciso solo la morte di Clitennestra, come mio unico regalo e omaggio a Luchino Visconti. Sarà una citazione viscontiana, uno dei momenti più straordinari della storia del cinema che è il finale della “Caduta degli dei” (ambientato nella Germania del '33 ndr). Vedremo un’auto del 1938 e alcuni costumi e un’immagine, ma senza svastiche o fasci. Sarà un utilizzare quel sistema estetico. E poi ci sono delle componenti neoclassiche straordinarie».
Un sole è caduto sulla terra. Ha distrutto tutto, il potere: è la fine?
«È un mondo di gelo, doloroso, addolorato. Ed è raggelato perché il sole non c’è più. Quando un sole smette di splendere quel mondo è di gelo, non solo metereologico. Sono i rapporti raggelati. Siamo di fronte ad un dolore persistente. E cadrà la neve. Una neve da cui fuoriescono pezzi del vecchio sistema».

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