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Dove passa Camilleri nasce letteratura, due libri sul maestro siciliano

Andrea Camilleri

Uno, cento, mille Camilleri, uomo, narratore, maestro, che non smetteva di sperare e che continua a regalarci il sogno della lettura. Un moltiplicatore di pensieri e di sogni la sua vasta produzione letteraria, una tenace esplorazione dell'uomo, un lungo viaggio sulla carta in cui, “traslocando” da un genere all'altro, egli è sceso come un archeologo nei vari strati della realtà (ha sempre sostenuto di non sapere inventare le storie di sana pianta, avendo bisogno di una spinta, anche un dettaglio, di verità). Una produzione che ne feconda altre, se due libri, uno appena pubblicato, l'altro ripubblicato a distanza di 9 anni, si nutrono delle parole e delle storie di questo artigiano del tempo e della scrittura, sperimentatore della finitudine e della grandezza dell'essere umano.

“La testa ci fa dire” è il bellissimo titolo di un dialogo tra Marcello Sorgi e Andrea Camilleri, già pubblicato da Sellerio nel 2000. Cosa faceva dire la testa ai due intellettuali siciliani di “mare aperto” (quelli di “scoglio” rimangono sull'isola), è una conversazione-racconto che dall'infanzia e dalla giovinezza paesana dello scrittore, l' “arcitaliano” come lo definiscono nella postfazione Fruttero e Lucentini, si allarga alla famiglia (di Camilleri e di Sorgi), a Roma, al cinema, al teatro, alla politica, alla “sicilitudine” di entrambi (il “rovello dell'arcolaio” secondo Mazzamuto, che definiva così il Dna siciliano), al fascismo e al comunismo, e alla sua scrittura stratificata, ai personaggi, alle storie. I libri parlano, si raccontano. E questo libro plurale, tra “confessioni”, ricordi, incontri con personaggi della storia e della cultura italiana ed europea, citazioni e lezioni colte (da Stendhal a Pirandello a Sciascia), è tutto un dipanarsi intimo e famigliare del “corso delle cose” della vita di Camilleri.

E “Il corso delle cose” (titolo tratto da “il corso delle cose è sinuoso”, una frase del filosofo Merleau-Ponty) fu il primo suo libro terminato nel '68 e pubblicato nel ‘78 da un piccolo editore, Lalli, dopo un “sinuoso” percorso, contemporaneamente allo sceneggiato televisivo che ne venne tratto con il titolo “La mano sugli occhi”. Cui seguì nel 1980 il battesimo letterario, con Garzanti, con “Un filo di fumo”, un inizio non particolarmente benedetto (tra i buoni consigli di Sciascia, che pure lo apprezzava, vi era quello di correggere i termini dialettali). E poi venne il boom dell'universo Montalbano. Cecità, Cibo, Corpo, Eros, Esordio, Lingua, Mafia, Montalban (o), Pinocchio, Sicilitudine, Storia, Successo, Vigàta, Voce, è l'alfabeto del mondo camilleriano sgranato in “Alfabeto Camilleri (Sperling & Kupfer) a cura di Paolo Di Paolo, attraverso i racconti-ricordi (alcuni dei quali già apparsi in altre sedi) di Stefano Massini, Antonella De Santis, Marino Niola, Elvira Seminara, Paolo Di Stefano, Giuseppe Antonelli, Lirio Abbate, Giuliano Malatesta, Valentina Farinaccio, Piero Melati, Giovanni De Luna, Stefano Salis, la messinese Nadia Terranova, Salvatore Silvano Nigro, cui si aggiungono Paolo Di Paolo (Robinson Crusoe a Vigàta), curatore della raccolta, e Serena Dandini (Infinitamente).

Una narrazione metacamilleriana grazie alla quale si apprende ancora tanto del maestro, i suoi esordi, la sua maniera ironica o divertita di trattare la materia del sesso (a costo di apparire sessista), quella del cibo (un lussuoso trionfo di cucina popolare siciliana), la trappola della sicilitudine che Camilleri ha saputo saltare con agilità, il suo modo di raccontare i fatti storici e reali (con un continuo riattraversamento della linea che separa il vero dal verosimile), l'invenzione di Vigàta (che per la Terranova «diventava Macondo, e le cose siciliane non erano più “cose di cosa nostra” ma cose europee, cose di tutti»), la sublime invenzione di una lingua (che fonde oralità e prosa alta), la sua voce di seducente affabulatore (che ritmava la sua “recita”), il modo di raccontare e combattere la mafia (non usando quasi mai la parola “mafia”), l'omaggio a Manuel Vásquez Montalbán, la sua cecità che gli aveva restituito una doppia vista e gli permetteva di non vedere quel che mai avrebbe voluto guardare. Un Robinson Crusoe radicato nella sua isola, un viaggiatore stanziale che alla terrenità come all'infinito guardava con incredibile leggerezza. Per farci “scialare”. E perciò gli siamo “infinitamente” grati.

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