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L'ingresso della Lega nel Governo siciliano, ha prevalso il “calcolo politico”

Il presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci

Conosciamo già l'obiezione coram populo del governatore alle critiche che stanno infarcendo la nomina di un esponente leghista, in procinto di espugnare il tempio dei Beni culturali in Sicilia. Musumeci rivendica un metodo da pentapartito e non si cura se arriva una berlina, si apre lo sportello e non scende nessuno: era Cariglia, secondo la mitica battuta di Fortebraccio. Ma più che una berlina ci vorrebbe quanto meno una station wagon per contenere i Cariglia che lo circondano nella giunta di governo. Il presidente della Regione crede nell'ortodossia schematica che dà valore al peso elettorale delle forze alleate, alle quali assegna il potere di selezionare gli uomini di governo, pretendendo solo una fedina penale pulita e applicando la finzione della “terna” che dovrebbe salvaguardare l'ultima parola del presidente.

È il suo totem, eretto a difesa delle scelte fin dalla «questione morale» che ha scandito le turbolenze della campagna elettorale. In questo recinto ideologico Musumeci ha maturato le sue mosse con ostinata coerenza, ben consapevole di imbarazzi sfacciati che hanno distinto soluzioni politiche, a costo poi di metterci la faccia e chiedere scusa. Una cultura parossistica interpretata dal governatore nello scatto d'ira contro il deputato che chiedeva all'Ars il voto segreto, escamotage difeso dallo stesso Musumeci quando rivendicava i diritti dell'opposizione.

Non basta, però, il retaggio politico per giustificare la scelta di affidare i Beni culturali alla Lega. Che se non fosse un accordo vero sarebbe al massimo una battuta da Bagaglino. Ma poiché la «situazione è grave ma non è seria» (Ennio Flaiano), il governatore potrebbe rispondere con l'aforisma del poeta americano che scrisse “Oh capitano mio capitano”: «Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini». In realtà Musumeci vuole dominare le contraddizioni più che contenerle. È questo il collo d'imbuto attraverso il quale le scelte vengono livellate, a prescindere dalle loro sorgenti, più o meno contaminate. Il conducente è lui, gli altri sono pedine a rimorchio, figurine per riempire l'album.

Nel caso della Lega serve garantirsi un prezioso alleato che non faccia le bizze quando lui si presenterà a incassare il bonus per il secondo mandato, o a lasciare il testimone al fedelissimo Ruggero Razza. Non a caso l'avvertimento di Salvini («Mi piace il sindaco di Messina») gli ha dato la spinta per cedere anche lo scrigno dei Beni culturali (vero obiettivo della Lega), spianando la strada alla profanazione simbolica del tempio, pur di acquietare i bollenti spiriti del Carroccio. Il governatore ha preferito sacrificare i gioielli di famiglia, rinunciando alla posizione di forza acquisita in questi mesi nel ruolo di domatore della pandemia in Sicilia. Ha preferito giocare al ribasso, facendosi trascinare nel gorgo di una campagna elettorale preventiva. E anche sul versante della maggioranza avrebbe potuto contare sulla riserva dei collaborazionisti di Cinquestelle per neutralizzare il peso dei tre deputati occasionali della Lega all'Ars, non certo fedeli alla spada di Alberto da Giussano.

La mossa di Musumeci risponde a un criterio di contabilità politica, apre le porte del tempio ai mercanti. Poco cambia se poi sarà un democristiano delle retrovie, travestito da leghista, a raccogliere il testimone lasciato tragicamente da Sebastiano Tusa. Perderemo, comunque, quello sguardo commosso davanti a un rostro che risale dagli abissi.

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